Le scuole al tempo dei Borbone: altro che analfabeti (nuove fonti archivistiche per lo smantellamento di un luogo comune). Un breve saggio di Gennaro De Crescenzo.

“A causa dell’ignoranza popolare su 158.727 matrimoni celebrati nel 1824 in ben 32.255 né la sposa né lo sposo sapevano firmare… Fu posta così in evidenza la piaga della popolare selvatichezza… Chi dava la colpa di questo stato selvaggio alla negligenza delle famiglie, chi alla troppa fretta di ritirare dalla scuola i fanciulli, chi alla mancanza di stimoli d’onore da promuoversi nella scolaresca, chi alla mania di parenti di ritrarre un sollecito lucro dai loro figli  mandandoli troppo presto agli opifici. Nessuno ebbe il coraggio di indicare la vera causa di questa popolare rozzezza che è massimamente dovuta all’erroneo assestamento economico del paese” (1). Qualcuno, leggendo questo testo, potrebbe pensare al Regno delle Due Sicilie. E sbaglierebbe. Perché la situazione descritta è quella della “civilissima e più che mai progredita” Inghilterra agli inizi dell’Ottocento, in un momento in cui si contavano solo 3363 scuole elementari e i primi interventi statali si iniziò a vederli solo nel 1831 (giova ricordare che -come vedremo- erano oltre circa settemila le scuole “elementari” nelle Due Sicilie intorno alla metà dell’Ottocento). Insomma: un’ulteriore dimostrazione di un metodo storiografico che andrebbe applicato sempre e non solo quando conviene per confermare le proprie tesi precostituite: il rispetto dei tempi di sviluppo di un Paese e la necessità di allargare l’obiettivo delle analisi diacronicamente e sincronicamente.

Sul Sud “analfabeta” troppo spesso viene citato il dato dell’analfabetismo meridionale preunitario. Altrettanto spesso il dato viene riportato in vita carico di luoghi comuni generici e razzisti per confrontarlo (il filo rosso dell’ignoranza!) con i dati puntualmente negativi dalle indagini relativi ai famosi e attuali “accertamenti delle competenze” nelle nostre scuole magari secondo lo schema che abbiamo già indicato per altri settori (“siete stati sempre inferiori/ignoranti”, “è inutile aiutarli”, “fate da soli” ecc.). Tornando alla storia, invece, il dato ossessivamente citato è quello del primo censimento italiano del 1861 ma nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni e i documenti originali sono da anni spariti) (2) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un Regno all’altro e  in piena guerra (quella del “brigantaggio”) appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, del resto, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte di oltre nove milioni di persone (tutte diffidenti per i più disparati motivi) per chiedere se sapevano leggere e scrivere… Poco credibile anche che gli stessi impiegati, nelle notti intorno a quella del 31 dicembre, si accanissero nella ricerca di persone a cui far compilare schede pur sapendo che sarebbero stati retribuiti in base al numero delle schede compilate, che bastava il segno di una “x” per dimostrare che la compilazione era avvenuta e che in quella famiglia erano tutti analfabeti (3). Senza mai dimenticare che quei dati originali, come detto, non sono stati mai più ritrovati per cui assistiamo da oltre un secolo e mezzo ad un “copiaeincolla” epico tra studiosi, qualche parola va spesa per capire se era veramente possibile che su una popolazione di oltre nove milioni persone solo novecentomila di esse sapessero leggere e scrivere. Ascanio Branca, potentino, ex comandante della “Brigata Lucana” di Garibaldi, assolutamente insospettabile di qualsiasi vaga simpatia borbonica, sottoponeva ai colleghi del Parlamento queste riflessioni: “Noi abbiamo fatto un censimento nel 1861… nel Mezzogiorno questa massa di analfabeti si è fatta elevare fino all’89 per cento. Ebbene, occorre verificare se questa asserzione, che spesso si ripete, e che io credo fallace, sia o pure no esatta”. Il deputato friulano Gabriele Luigi Pecile intervenne nello stesso dibattito denunciando che quei dati potevano essere il frutto di un “equivoco” e auspicando che nei successivi censimenti si “escludessero dal conto i bambini e i lattanti i quali in nessun paese del mondo si calcolano tra gli illetterati” (4). Una considerazione più generale ma forse utile va fatta proprio sulla scienza statistica di quegli anni. Il dibattito mise in evidenza un aspetto che potrebbe forse rivelare la verità in merito a quel censimento: “Nel contesto delle lotte risorgimentali, fu riconosciuto [alla scienza statistica], un ruolo ‘patriottico’ nel senso di mezzo per l’opposizione ai vari regimi” (5). A proposito della parzialità di quei dati, comunque, se è vero che gli analfabeti in Lombardia erano pari al 53,7, è anche vero che già in Emilia Romagna erano il 77,6, in Toscana il 74 con dati vicini tra Umbria (83) Puglia (88,6) o la stessa Sardegna con l’89,7 (da includere, evidentemente, per ragioni dinastiche e politiche, tra le regioni settentrionali). Altro dato interessante: su un totale di 23.340 scuole nel Paese, 12.250 circa di esse erano in Piemonte e Lombardia (quella ancora austriaca e -utile ricordarlo- non ancora italiana): Emilia, Liguria e Toscana contavano ognuna circa 1.000 scuole, in media con le scuole di altre regioni meridionali nelle quali, comunque, erano capillarmente diffuse le scuole “laiche” e quelle cattoliche (e su questo torneremo dopo), senza citare le eccellenze delle università a livello scientifico, giuridico o medico e senza citare neanche i prestigiosi istituti “parauniversitari” (Scuola Ponti e Strade, Collegio Medico Cerusico, Scuola Veterinaria, Scuola Militare Nunziatella, Istituto di Belle Arti o Collegio di Musica). 10.528, comunque, gli iscritti presso le università duosiciliane, 5203 quelli complessivi del resto dell’Italia e questi dati non possono che essere il frutto evidente di una scolarizzazione oggettiva e diffusa (6).

Probabilmente, inoltre, questo numero altissimo degli iscritti alle università napoletane è da considerarsi addirittura più basso di quello reale: l’iscrizione non era obbligatoria ed esistevano tasse solo per la laurea (scelta quanto mai “avveniristica” se confrontata con l’esosità delle tasse di oggi che, di fatto, limitano il diritto allo studio dei nostri giovani) (7). Intanto gli scarsi dati rivelati anche da scrittori non “borbonici” confermano quelli “al rialzo”: “per gli anni 1852-53-54 ho potuto raccogliere le cifre degli studenti, che presero laurea o licenza nelle varie facoltà. Nel 1852 furono rilasciate 1022 cedole in belle lettere; nel 1853 1085, e 904 nel 1854. Negli stessi anni, nella facoltà di legge vi furono, complessivamente, 2433 fra lauree e licenze per notai; nella facoltà di medicina, 1927, fra lauree e licenze per levatrici e flebotomi; e nella facoltà di matematica 698, tra architetti e agrimensori, mentre le cedole di farmacia furono 692. Notevole è il confronto di queste cifre con quelle di oggi” (8).

Confermate, allora, le affermazioni del conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saìnt-Jorìoz: “La pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia” (9). “Fiorente”, del resto, era definita la scuola napoletana anche dai giornali liberali del tempo (10).

Da rilevare, in questo senso, l’annotazione riportata dall’Almanacco Statistico del Regno d’Italia secondo il quale l’alto numero di iscritti alle università meridionali nel 1862 (in testa, come detto, Napoli con oltre 10.000 iscritti) “era avvantaggiato dal miglioramento dell’istruzione elementare” che si era avuto con l’unità d’Italia: significativa l’associazione tra quel numero e l’istruzione elementare ma peccato, per quell’Almanacco sabaudo, che quel numero fosse alto anche in precedenza e specie se confrontato con quelli delle altre città italiane (Pavia seconda con 1773 iscritti, Torino terza con 888 iscritti) (11).

Tornando all’analfabetismo, forse più attendibili i dati del censimento di dieci anni dopo, nel 1871, ma con una annotazione importante: già la Legge Casati del 1859 (estesa dopo l’unificazione dal Piemonte a tutta l’Italia) fissava l’intervento dei Comuni nelle spese per l’istruzione primaria: conseguenza di questo ordinamento fu che le scuole non vennero create in base alle necessità delle popolazioni ma tenendo conto delle potenzialità finanziarie degli stessi Comuni e con schemi di sorprendente attualità. Anche qualche ricerca di ambito universitario è costretta (timidamente) a riconoscere che con il brigantaggio, i commerci e le altre attività in crisi, i comuni vessati per il mantenimento e il vettovagliamento delle truppe sabaude, le casse dei comuni erano vuote e non c’era la possibilità di aprire o mantenere scuole (12).

Dal 1876 e poi nel 1886 lo Stato cominciò a concedere dei contributi (a certe condizioni) prima ai Comuni con meno di 1.000 abitanti e poi anche agli altri, per la copertura delle spese degli aumenti degli stipendi dei maestri  e anche per la concessione dei mutui per la costruzione di nuove scuole: si trattò di aumenti che andarono prevalentemente ai comuni del Nord Italia in un trend sistematicamente negativo a danno delle scuole del Sud sia in termini di costruzione di edifici che nel rapporto alunni/classi (13). Immediatamente dopo l’unificazione e almeno fino al 1904, i finanziamenti pubblici alle scuole risultavano “sproporzionati, nella loro limitatezza”, “di un’insufficienza eccessiva e vergognosa” (14). Ancora nel 1907 Nitti sosteneva la tesi della totale inadeguatezza degli interventi governativi: “In Italia la popolazione scolastica è così scarsa ancora, dopo 50 anni di unità e dopo 30 anni d’istruzione obbligatoria, che si può dire che lo scopo della legge Coppino del 1877 non fu mai realizzato” (15). Così, all’atto dell’unificazione il governo affidò ai Comuni il finanziamento delle scuole e venne penalizzato il Sud; successivamente i prestiti statali per costruire edifici scolastici assegnavano circa 14.000 lire a Lombardia e Piemonte, 641 lire in Campania e 80 lire in Calabria ogni 100.000 abitanti; nel 1936 erano 16.330 le classi in Piemonte e 11.200 in Campania pur con un numero maggiore di abitanti; nel 1941 il divario cresce con 99.000 classi a fronte delle 39.000 al Sud con un quadro ancora peggiore per l’istruzione secondaria (16). Un altro dato esemplificativo: in Principato Citeriore le scuole elementari preunitarie erano 495. Nel 1862  erano diventate appena 269 arrivando quasi a dimezzarsi. E non aumentarono (nonostante i trend di crescita proclamati dai governi italiani) fino al 1864 rispetto ai dati (anche parziali) borbonici… (17). Pur senza una legge specifica, di fatto, quindi, le scuole del Sud furono chiuse per oltre un decennio ed era inevitabile riscontrare percentuali alte di analfabeti dalle nostre parti in quegli anni.

Opportuno chiedersi, allora, che cosa fece lo Stato italiano per cambiare quella situazione negli anni successivi se quelle percentuali non diminuirono in maniera così sensibile. Per quanto riguarda i dati del passato e del presente e la loro spaventosa continuità, il governo ha approvato recentemente i decreti sui fabbisogni standard, al contrario di quanto promesso dai premier di turno e senza la minima opposizione da parte dei politici meridionali (18). Il risultato è che, a proposito di asili nido, ad esempio, i finanziamenti non sono assegnati in base al bisogno delle popolazioni ma in base alla “spesa storica” e cioè alle strutture esistenti (più hai più avrai, meno hai meno avrai). “Prima il Nord”, allora, non è più (e da tempo) solo uno slogan leghista… Con trappole e giochini più o meno plateali, è questa la linea seguita dall’Italia addirittura dal fin dal 1860 e senza soluzione di continuità, in totale disprezzo alla tesi secondo la quale eravamo tutti italiani e con pari diritti: chi nega l’esistenza di questa linea lo fa solo per coprire le proprie responsabilità storiografico-culturali o dirette e in entrambi i casi si tratta di colpevoli complicità o di omesse denunce. Tesi neoborboniche? Tutt’altro. Premessa anche su questo tema l’esigenza di approfondire gli studi sul Sud preunitario (tutt’altro che conclusi), qui siamo solo di fronte alla necessità di rendere consapevoli i meridionali (e il resto degli italiani) delle colpe secolari delle nostre classi dirigenti (locali e nazionali) con il solito grande obiettivo: la formazione di classi dirigenti veramente e finalmente consapevoli, nuove e adeguate.

Una parentesi è obbligatoria sulle modalità di formazione e selezione dei docenti. La parentesi, del resto, si inquadra in pieno nel tema delicato, complesso e importante, con aspetti ancora addirittura attuali, della formazione e della selezione delle classi dirigenti meridionali con una sottolineatura in più riferibile all’importanza che i docenti di ogni ordine e grado avevano e hanno nella ulteriore formazione delle classi dirigenti del futuro. Sono diversi i documenti nei quali si segnalano veri e propri abusi. Molti i casi di scuole nelle quali mancano i maestri licenziati perché “si rifiutano di prestare giuramento al nuovo governo” o “non avevano partecipato al plebiscito” (19). Numerose le lettere al Direttore delle Scuole Nazionali delle Province Napoletane per segnalare maestri “dal conosciuto ammirevole patriottismo” o “animati da spirito liberale e progressista” o “perseguitati come liberali dal precedente governo” o “molto attaccati a Vittorio Emanuele” (20).

Dopo il 1860, dunque, vi fu una vergognosa “damnatio memoriae” verso alcuni scienziati e verso intere scuole scientifiche che non accettarono l’occupazione piemontese, “damnatio” associata ad una vera e propria (e spietata) selezione dei docenti. Un esempio lo ritroviamo negli accurati, documentatissimi e recenti studi del prof. Giovanni Ferraro a proposito delle scienze matematiche (dello studio di Ferraro facciamo nostro anche il titolo riferibile a intere generazioni di storici interessati e “distratti”: “Non sempre gli uomini che dimenticano hanno torto”). Si affrontarono così due scuole e la cancellazione della memoria della prestigiosa scuola matematica “sintetica” napoletana si legò non ad aspetti scientifici ma politici: “Tale polemica è normalmente descritta in termini di lotta tra due gruppi di matematici: 1) da una parte, i sintetici (capitanati da Nicolò Fergola, prima, da Vincenzo Flauti, poi), conservatori sia in matematica – dove sono incapaci di andare oltre il mito degli antichi – sia in politica – dove apertamente appoggiano il governo borbonico –; 2) dall’altra, gli analitici (capitanati, prima da Colecchi, poi da Tucci), progressisti sia in matematica – in quanto aperti a certe tendenze della matematica francese – sia in politica – in quanto liberali e, forse, anche filo-unitari”. E lo schema della “criminalizzazione” dell’avversario (politico) con la cancellazione di prestigio e ruoli è molto, troppo simile a quello seguito nello stesso periodo e (per certi aspetti) fino ad oggi nella selezione delle classi dirigenti meridionali (21). Del resto, le posizioni dei personaggi in questione erano chiare anche per i loro “nemici”: Fergola fu contrario alla repubblica napoletana del 1799, cattolico e vicino ai Borbone; Flauti arrivò a respingere al luogotenente generale la lettera con la quale lo si pregava di gradire una qualunque nomina nel nuovo governo italiano (i balconi della sua abitazione rimasero chiusi per una protesta simbolica proprio contro il nuovo governo garibaldino/sabaudo). “Da qui la condanna a priori di ciò era, o era sentito, come ‘borbonico’, parola che, non a caso, in italiano (ma solo in lingua italiana) ha un’accezione negativa. C’è un’importante questione che tocca solo marginalmente il presente lavoro ma su cui invito gli storici dell’Italia contemporanea a riflettere (soprattutto coloro che hanno a cuore l’Italia unita): si tratta di valutare quale sia stata l’influenza di ciò che Davis chiama ‘writing history backward’ nella formazione del pregiudizio antimeridionale che domina in ampi nuclei della società italiana. In termini più espliciti, è opportuno interrogarsi se ‘absolving the new Italy of responsibility for the conditions of the South’ (con la conseguente esaltazione acritica del processo di unificazione) non sia la base su cui si è costruito il pregiudizio anti-meridionale (e le sue espressioni politiche) e se il pregiudizio anti-meridionale (anche nelle sue espressioni politiche) non sia null’altra che la forma becera del pregiudizio antiborbonico… (22). L’obiettivo del governo italiano era cercare tra i titolari di cattedre e i membri dell’Accademia persone di sicura fede anti-borbonica: avevano tutti servito i Borbone, sia pure con sfumature diverse. Né la situazione non era differente per altri funzionari pubblici e per gli ufficiali dell’esercito. Tuttavia, ad amplissima parte della classe dirigente borbonica fu offerta la possibilità di aderire al nuovo regime, conservando o, forse, incrementando i propri privilegi. In genere, la discriminante non fu l’atteggiamento politico precedente al 1860 ma l’accettazione del nuovo stato di cose. Per questo motivo [a proposito, ad esempio, dei matematici], Trudi poté conservare la cattedra ed essere riammesso all’Accademia; per lo stesso motivo, Flauti, il “bisbetico” Flauti –come lo definisce Benedetto Croce – , non fece più parte dell’Accademia. Fu così che i destini di Flauti e Trudi, che per vent’anni erano stati strettamente legati, si separarono: Trudi diventò un matematico italiano […], Flauti, invece, scelse di morire napoletano”. Esemplari e quanto mai utili le osservazioni sempre di  Ferraro per spiegare (a chi ancora ce lo chiede) com’è stato possibile costruire e gestire la colonizzazione del Sud dal 1860 ad oggi: “Volendo leggere la vicenda Trudi-Flauti con occhi liberi dalla retorica ‘risorgimentale’ e con un briciolo di retorica, appare chiaro che la rimozione del passato fu il prezzo pagato da Trudi per diventare un matematico italiano. Tutto sommato fu fortunato: in quegli anni gli operai di Pietrarsa o i contadini della Pentria pagarono ben altro prezzo e, alla fine, diventarono soltanto terroni” (23).

Ritornando alle scuole “popolari”, Luigi Settembrini, come detto, noto esule antiborbonico, era stato nominato dal governo sabaudo Ispettore Generale degli Studi. Secondo Settembrini l’istruzione elementare nelle Due Sicilie, più che essere riformata, “doveva essere creata perché non ci è affatto” (24) e le notizie diffuse da Settembrini ebbero larga eco forse condizionando anche le successive analisi. Del resto con quel ruolo appena assegnatogli dal governo italiano, se avesse detto il contrario sarebbe sembrato strano perché si sarebbe, da solo, cancellato il “sacro” lavoro che doveva eseguire… Eppure i dati archivistici statistici dicono altro, molto altro. Si trattava in molti casi di scuole-classi e si trattava spesso anche di scuole-classi allestite non in locali specifici e con attrezzature magari non ottimali ma è chiaro che, parlando della metà dell’Ottocento, la situazione era uguale nel resto dell’Italia e del mondo e a Milano o a Torino non risultavano lavagne interattive e collegamenti in fibra ottica.  E’ certo, comunque, che, secondo il parere di Girolamo Nisio, intellettuale e politico liberale e profondo conoscitore del sistema scolastico preunitario e unitario, “nel sistema scolastico borbonico nel maggior numero dei comuni si compiva il corso elementare in una scuola nella quale si entrava dai 6 anni e si usciva quando si era dato saggio di avere appreso il leggere, lo scrivere e il conteggiare” (25).

E’ certo anche che, in merito all’obbligatorietà dell’istruzione, la legge napoletana assumeva, fin dal 1816, una posizione più netta rispetto a quella sabauda prevedendo prima richiami graduali ai genitori e poi anche l’eventuale taglio di pubblici interventi di beneficenza o anche l’inibizione dai lavori pubblici. Con il sistema sabaudo, invece, venivano puniti i figli e non i genitori e si trattava in termini di diritto e di morale, di un notevole passo indietro (26).

Tornando all’Archivio di Stato di Napoli e ad alcune ricerche effettuate (e da effettuare) e tornando ai numeri, le cose, però, davvero non sembrano rientrare nel quadro che finora ci hanno trasmesso. I dati dell’inchiesta avviata nell’estate del 1861 (circolari del 24 maggio 1861 e del 3 agosto 1861) per accertare la consistenza delle scuole esistenti sul territorio dell’ex Regno delle Due Sicilie sono rimasti pressoché inediti -con l’eccezione di un paio di recenti pubblicazioni- per oltre un secolo e mezzo tra i documenti del fondo Ministero Istruzione presso l’Archivio di Stato di Napoli (fascio 716, I, II). A questo punto occorre una premessa importante in merito alla completezza di questi dati. In sintesi: 1) Non confluirono in questa inchiesta i dati di Napoli e della Sicilia (si pensi che a Napoli solo nell’Albergo dei Poveri erano oltre 700 i bambini inseriti nella scuola primaria); 2) 606 comuni sui complessivi 1845 non diedero risposta; 3) furono numerose le lettere di accompagnamento di molti “statini” (moduli con le indicazioni richieste dal Ministero) che segnalavano che si trattava di “statini parziali”; 4) mancano i maestri e le scuole “clandestine” che pure non dovevano essere poche e che erano allestite magari per evitare controlli di natura politica o fiscale; 5) in molte famiglie si preferiva educare a casa i propri figli con maestri privati o scelti nell’ambito delle stesse famiglie; parliamo, del resto, di una semplice alfabetizzazione e si pensi che nel 1820 i maestri privati nel Regno di Napoli erano circa 66.000 (27);  6) molte scuole risultavano inesistenti ma solo perché non risultavano maestri in carica o perché decaduti o privi del rinnovo dell’incarico (spesso, come detto, per motivi politici) o perché (in molti casi per assenza di stipendi) se ne erano andati volontariamente. Utile, a questo proposito, ricordare che i maestri in carica erano stati nominati diversi anni prima e quindi si trattava di maestri nominati dai governi borbonici. I dati che riporteremo, quindi, sono dati senz’altro “per difetto”, in considerazione dei punti esposti in premessa. Risultano complessivamente 5037 scuole pubbliche e private; tra esse 1556 erano le scuole pubbliche maschili e 1142 quelle femminili (tot. 2698 scuole pubbliche su 1845 comuni). Considerando i dati esposti e quelli in premessa si potrebbe ipotizzare, allora, un numero complessivo non inferiore alle 7000 scuole e sarebbe già da solo un dato sorprendente. Se consideriamo, poi, una media di 50 alunni per classe arriveremmo a cifre alte che, associate a quelle altissime riferibili ai maestri privati, annullerebbero di fatto i famosi dati del 90% dell’analfabetismo riportati dal censimento del 1861 e diffusi per tutti questi anni, metterebbero in seria crisi i soliti “accusatori dei Borbone” e dovrebbero aprire un dibattito finalmente serio e documentato sul tema, senza preconcetti e “tesismi” se per “tesismo” intendiamo la categoria felicemente sintetizzata dal prof. Luigi De Matteo e applicabile ai più disparati settori per le questioni meridionali: per oltre un secolo e mezzo la storiografia ufficiale ha fatto prevalere una lettura dei fatti sistematicamente condizionata da una tesi iniziale precostituita e in gran parte dei casi dalla necessità di dimostrare l’inferiorità delle condizioni delle regioni meridionali rispetto a quelle del resto dell’Italia (con un modello crociano -aggiungiamo noi-, come appena rivelato dall’ultimo libro di John Davis)  (28).

L’esistenza di tante scuole private, poi, non deve essere letta come un dato negativo: da un lato erano per certi versi “assecondate” dai Borbone in una sorta di efficace e moderna privatizzazione  con una linea che veniva seguita anche in altri settori ed in maniera proficua (29), dall’altro erano un segnale di benessere sociale ed economico e non a caso nelle province più ricche erano più numerose. Nessuno, del resto, ha elementi scientificamente credibili per sostenere che in quegli anni nelle scuole private non si fornissero agli allievi almeno gli elementi utili per leggere e per scrivere. Considerata l’esigenza all’ordine del giorno tra queste righe (accertare la vera percentuale di meridionali analfabeti), nessuna rilevanza possono avere considerazioni anche cultural-moraleggianti sul fatto che molte delle scuole erano gestite da preti.  Su tutto, poi, una considerazione di logica minima: quale genitore sprecherebbe i propri soldi in una scuola incapace di insegnare almeno a leggere e a scrivere ai propri figli?

E si rafforzano le nostre certezze sulla falsità di quei dati sull’analfabetismo (ci interessa sapere, come detto, se quei ragazzi sapevano leggere e scrivere e non se erano o meno degni di un attuale master universitario) analizzando alcuni provvedimenti: la preparazione dei discenti degli istituti privati fu testata, nel 1847, ad esempio, da 12 Commissioni di Esercitazione Scolastiche che integrarono il lavoro di controllo degli ispettori; controlli erano effettuati anche da alcune commissioni comunali che prevedevano una forte presenza di “padri di famiglia” (le prime forme di coinvolgimento dei genitori nella scuola italiana si registrarono nel 1974 con i famosi “decreti delegati”) (30).

Un esempio significativo a proposito di scuole private e di scienziati napoletani lo ritroviamo ancora una volta nella vita del matematico Nicolò Fergola, la cui storia è sintetizzata efficacemente negli studi di Giovanni Ferraro. “Quella che si può chiamare scuola di Fergola scaturì dalla sua attività di docente al Liceo e, soprattutto, di docente privato. Come già detto, nel 1771 Fergola istituì una scuola privata dove era fornita una formazione matematica di alto livello; gli studenti, in numero limitato, erano spinti a frequentarla da motivazioni culturali oppure dalla necessità di completare la loro preparazione matematica in prospettiva di carriere in campo scientifico o tecnico. È difficile chiarire il ruolo delle scuole private nella Napoli del tempo; esse fornivano una preparazione di base in varie discipline, ma spesso anche una preparazione di livello superiore; a volte avviavano alla ricerca giovani di talento. A tutt’oggi non esiste una valutazione precisa e priva di pregiudizi del ruolo che le scuole private svolsero tra Settecento e Ottocento nei territori napoletani. L’affermazione che la presenza di scuole private sia, di per sé, un segnale dell’arretratezza dello stato napoletano non è, a mio parere accettabile, in quanto si dovrebbe allora concludere che gli stati dove vi è una forte presenza di scuole private (ad esempio, gli USA) siano arretrati o che l’Università Bocconi sia, di per sé, il segnale di problemi nel sistema universitario italiano. Inoltre, va tenuto conto che l’Università di Napoli svolgeva spesso un ruolo di semplice certificazione della preparazione raggiunta altrove: anche le ragioni di tale fenomeno non sono state finora indagate” (31). Le scuole private integrarono di fatto, allora, le scuole pubbliche ma rappresentarono anche il luogo dove si sperimentavano nuovi modi e nuove forme di insegnamento (“nuovi e più atti ad attirare la fiducia dei padri di famiglia”), una “gloriosa tradizione” che si basava  sulla “libertà di insegnamento” e spesso “in nobile gara coi pubblici istituti”. La storia dell’insegnamento privato, del resto, fu articolata e complessa: partiva dal Settecento e dal successo di iniziative come quella di Giuseppe Vinaccia, un fedele canonico che nel 1795 fondò il Monte della Dottrina Cristiana, un fittissimo reticolo di scuole parrocchiali “per le fanciulle del popolo”, passando per concessioni e chiusure spesso legate ad agitazioni politiche o a moti (dopo quelli del 1820 le lezioni si dovevano tenere a porte aperte…), dal periodo francese a quello successivo e fino alla fine del Regno (32).

Qualche dato sulle scuole, allora, può essere finalmente utile oltre che sconcertante sempre se pensiamo a quei famosi analfabeti… Terra di Bari (51 comuni – 351 scuole pubbliche, private, maschili e femminili); Terra d’Otranto (103-468); Capitanata (54-230); Molise (132-307); Abruzzo Citra (122-266); Abruzzo Ultra I (61-199); Abruzzo Ultra II (130-304); Terra di lavoro (174-664); Benevento (67-164); Principato Ultra (113-325); Principato Citra (144-495); Napoli (66-371); Basilicata (101-283); Calabria Citra (102-250); Calabria Ultra I (52-105); Calabria Ultra II (131-255).  Questi numeri, tra l’altro, sono confermati da altri numeri. In un’inchiesta del 1818 risultano 3354 scuole private e 3382 scuole pubbliche per un totale di 6736 scuole (sempre esclusa la Sicilia) (33). Il documento che riporta quei dati è una “sorta di tabulato nel quale furono riportate, distinte per province, tutte le informazioni relative non solo alle scuole pubbliche maschili e femminili, ma anche relativamente alle scuole private, ai collegi, alle scuole secondarie” (34). In tempi di progressiva affermazione delle scienze statistiche, tra l’altro, si tratta di un’ulteriore dimostrazione della cura dedicata dal governo borbonico alla scuola. E che i dati relativi a scuole, maestri e alfabetizzati siano da rivedere lo conferma pure un’altra inchiesta del 1820 in cui risultano, solo in alcune province (e Sicilia ancora esclusa), ben 56.666 maestri privati e circa 10.000 maestre. Non è credibile la motivazione addotta da alcuni studiosi per giustificare i famosi dati dell’analfabetismo e che chiama in causa la probabile presenza tra quei maestri di “artigiani o presunti maestri” (35): è una ipotesi indimostrata e stiamo parlando di persone che dovevano essere semplicemente in grado di insegnare a leggere e scrivere e non di alta specializzazione educativa… Si tratta, com’è chiaro, dell’ennesima dimostrazione, invece, del “tesismo” tipico della cultura “ufficiale” e al quale abbiamo già accennato: si cerca in ogni modo di giustificare la tesi precostituita (in questo caso le alte percentuali di analfabeti di quel famoso e inattendibile censimento del 1861 collegabile alla solita tesi delle tesi -anch’essa precostituita- della arretratezza meridionale) pur in presenza di numeri e dati che la smantellerebbero.

Qualche dato anche per quello che riguarda la situazione siciliana è possibile dedurlo da alcune recenti ricerche relative soprattutto alla legislazione legata alla scuola e ai (pochi) dati archivistici disponibili sul tema (36). Un vero e proprio processo di rinnovamento aveva investito la pubblica istruzione grazie a Luigi de’ Medici. Era stata istituita una Commissione di Pubblica Istruzione (da cui dipendevano scuole, università, convitti, collegi, seminari, conservatori, alberghi di arti e mestieri, case di educazione). Il fine della Commissione era l’attuazione di regolamenti e leggi per il miglioramento dell’istruzione pubblica tenendo conto del rispetto dei contesti locali e quindi degli usi, delle consuetudini e delle tradizioni (si trattava di un criterio mutuato dal diritto romano, prima dalla monarchia normanna e poi anche dai Borbone). Nell’ordinanza del 1818 i Regolamenti per le scuole primarie: tutti i comuni dovevano istituire una scuola primaria assistita da uno o più maestri secondo il bisogno della popolazione. Tra le indicazioni dei Regolamenti: “istruire i fanciulli nei primi elementi del leggere, scrivere nell’aritmetica e nelle istruzioni morali del Catechismo di Religione”; tutti i maestri dovevano utilizzare il metodo normale. Perché tutti potessero apprendere questa nuova metodologia, la Commissione istituì in tutti i capoluoghi di provincia una Scuola Centrale di Metodo da cui i maestri comunali potevano attingere le  competenti istruzioni. Con l’ordinanza ministeriale del  10 giugno 1820 si stabiliva che i maestri dovevano utilizzare libri stampati dalla Reale Stamperia e approvati dalla Commissione. La stessa Commissione favorì l’istruzione popolare imponendo agli insegnanti metodologie innovative e cioè il metodo lancasteriano nei Comuni con più di 4000 abitanti e il metodo normale nei comuni con meno di 4000 abitanti. La scuola primaria normale era formata da due classi (nella prima si imparava, oltre alla religione, a leggere, scrivere, contare; nella seconda si insegnavano le declinazioni dei nomi, dei verbi italiani, l’aritmetica e il catechismo). La struttura dell’organizzazione scolastica si completava con le deputazioni comunali per gestire il funzionamento e il mantenimento delle scuole popolari, sollecitare i padri a seguire i figli, provvedere ad una relazione mensile in cui far emergere il metodo adottato dal docente, l’attività , il profitto e il numero degli alunni. In un decreto del 1843 si pose l’istruzione elementare sotto la direzione dei Vescovi. Dopo l’istituzione di un Ministero dell’Istruzione, nel 1848, la scelta degli insegnanti fu affidata alle amministrazioni comunali e alle amministrazioni comunali era affidato anche il compito di assicurarsi del servizio prestato prima di disporre il pagamento ai maestri e alle maestre (norma che di fatto avrebbe impedito che nelle scuole “non si facesse nulla” o che “ne uscissero tutti analfabeti”). Vari furono i provvedimenti della Commissione per diffondere le scuole popolari femminili usando metodo normale e lancasteriano, entrambi adattabili “all’uso delle ragazze”. Numerose le autorizzazioni per l’apertura di scuole private femminili: nelle scuole pubbliche si insegnava spesso “solo a leggere e a scrivere” e in quelle private si potevano affrontare materie e temi diversi. Si trattava di istituti femminili, case di educazione, stabilimenti a pensione e a mezza pensione e anche di istituti per ragazze civili (non legati ad ordini religiosi) oltre che di istituti per ragazze nobili e civili in cui si insegnava scrittura, lettura, lingua italiana, aritmetica, cucito, ballo, musica, geografia o ricamo. A Messina si registrava un istituto con facoltà di pernottamento, a Noto un istituto di educazione sia per maschi che per femmine.  In sintesi, per la Sicilia, premessa la scarsa attenzione che gli storici hanno riservato allo studio della storia delle scuole ed in particolare delle scuole meridionali preunitarie (forse, come detto, per non compromettere la tenuta del teorema preconfezionato “sono tutti analfabeti”), la tesi secondo la quale anche “nella Sicilia borbonica la scuola fosse un’istituzione sconosciuta è in  realtà una tesi “non sostenibile” (37).

Interessanti e significativi, allora, anche i dati siciliani. Sulla base dei documenti ritrovati presso gli archivi siciliani ed in particolare dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Catania e presso l’Archivio di Stato di Palermo (fondi Commissione di Pubblica Istruzione ed Educazione, Direzione Centrale di Statistica, Intendenza Borbonica, Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente) viene fuori un’altra verità, anche se con la solita premessa: si tratta di spunti per nuove ricerche di fronte al mare di documenti dispersi o -colpevolmente- ancora inesplorati in tutti questi anni. Le scuole, allora, esistevano anche in Sicilia e vantavano numeri consistenti. Nel 1857 solo in 10 comuni sui 78 esaminati dell’Intendenza di Messina non risultavano scuole primarie pubbliche o private (risultavano scuole “comunali” e con un’equa distribuzione di metodo “normale” e “lancasteriano”). Nello stesso anno solo un comune su 63 dell’Intendenza di Catania non aveva una scuola “popolare” maschile  pubblica (4 solo a Catania, 26 quelle femminili “pubbliche”) (38).

Una nota finale, però, dobbiamo spenderla a proposito di un altro tema legato alla scuola ed in generale alla cultura di quegli anni e che tanti danni ha procurato e, per certi versi, procura alle popolazioni meridionali. Furono tante anche a livello “ufficiale”, le polemiche su una “piemontizzazione” monopolizzante. Lo stesso Settembrini, pure protagonista dei fatti risorgimentali ed esponente di spicco delle stesse classi dirigenti “scelte” dai piemontesi tra i meridionali, criticò duramente, come detto, la scelta della scuola magistrale per formare i nuovi maestri con metodi e programmi calati dall’alto (39). Al centro delle polemiche anche il piemontese Giovanni Scavia, l’uomo della scuola sabauda, con la sua linea “omogeneizzatrice” per una scuola che avrebbe dovuto “trasformare la plebe in popolo”, una linea che le classi dirigenti meridionali o, meglio, le classi dirigenti scelte dai piemontesi al Sud (e Settembrini c’era), almeno in un primo momento accettarono passivamente e colpevolmente. Non mancarono i confronti con la libertà di insegnamento adottata dai Borbone e con la varietà dei metodi delle scuole borboniche (pestalozziano, lancasteriano, normale). Non mancarono, a proposito di libertà vere o presunte, i confronti tra i due governi:  “Generalmente si riconosce ora in Napoli, che i piemontizzanti vietando insegnamento privato, nel quale sotto il cessato governo niuna ingerenza prendeva l’insegnamento officiale, per cui fu libero e prosperante, hanno posti i ceppi alla libertà del pensiero in nome della libertà politica” (40). Non mancarono le denunce contro l’adozione finanche di libri di testo “nazionali” che procurarono una crisi drammatica alle case editrici e alle tipografie napoletane e meridionali (fino ad allora caratterizzate da numeri che erano veri e propri primati nazionali per riviste e libri pubblicati e per quantità -113 solo a Napoli- di tipografie) (41). Nel regno prevalevano i professori privati e “la concorrenza di tanti professori era un acuto sprone per loro a perfezionarsi sempre di più […]; la indipendenza di cui godevano, del resto, li assolveva da ogni attitudine servile verso il governo”. I piemontesi, invece, vollero “mettere nelle mani del governo l’insegnamento, solo mezzo efficace per renderlo vacuo e immobile” (42). Lo Scavia citato prima, l’uomo-scuola dei Savoia, veniva accusato, di scelte non del tutto corrette: “Il signor Scavia spedito da Torino a Napoli, come organatore delle scuole magistrali, ha saputo far benissimo i proprii affari, avendo imposto a tutti i licei, scuole, e case da lui dipendenti l’uso de’ suoi libri. Così un altro professore di recente nominato cavaliere di S. Maurizio, che è un pezzo grosso nella università di Napoli, manda casse intere di una sua opera per tutte le provincie, e cosi guadagna tesori giovandosi del posto che occupa” (43). Inutile sottolineare l’attualità di queste denunce (quante sono le case editrici del Sud soprattutto nel delicato e importante settore scolastico?). Inutile sottolineare l’attualità di quelle polemiche: è recente l’applicazione di linee ministeriali con la cancellazione degli autori meridionali dai programmi scolastici senza pensare anche al fatto che della storia, della letteratura, dell’arte e della cultura del Sud, pur con eccellenze mondiali, non si registra la presenza nei manuali delle scuole di ogni <span;>ordine e grado e fin dal 1860. Quanto, allora, anche a proposito delle scuole, così come era capitato con le industrie o le condizioni finanziarie, hanno contato i luoghi comuni e una certa interpretazione (magari interessata e di parte) della realtà rispetto alla realtà stessa? Soluzioni? Le solite e le uniche possibili, per ora: più consapevolezza e, per i docenti, la possibilità di scegliere libri delle case editrici meridionali superstiti e quelli che dedicano più spazio alle verità storiche e meno spazio, quando si parla di Sud, a tesi superficiali o a luoghi comuni sempre più intollerabili e sempre meno tollerati. In conclusione, possiamo giudicare notevole, allora, l’importanza di alcune di queste ricerche anche accademiche citate, ricerche pubblicate dopo decenni di sostanziale silenzio ma con una nota da integrare: mancano in questi studi le ovvie deduzioni/conclusioni. Scuole e maestri nelle Due Sicilie esistevano: con pregi e difetti, con limiti e prospettive scuole e maestri esistevano ma nessuno (neanche tra gli accademici artefici di quelle ricerche) mette ancora in dubbio o contesta il famoso luogo comune del censimento su quel “Sud borbonico analfabeta” che ancora imperversa nei libri di scuola come nei dibattiti anche politici. È evidentemente necessaria e auspicabile, allora, un’ulteriore fase di ricerche (e di divulgazione) anche perché queste storie diventano (e non è più tollerabile) alimento per (immotivati) complessi di superiorità “padani” e (immotivati) complessi di inferiorità meridionali, alla base di un sistema di governo che da oltre un secolo e mezzo penalizza le popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie.

NOTE

1) Per queste notizie e per ulteriori fonti e approfondimenti sul tema e sugli altri temi relativi alle questioni meridionali cfr. Gennaro De Crescenzo, Noi. I neoborbonici. Storie di orgoglio meridionale, Magenes, Milano, 2016. Così continua il testo denunciando i guasti -sconosciuti dalle nostre parti- del sistema economico inglese: “un paese in cui la proprietà fondiaria e l’industria rimangono ancora infeudate e monopolizzate nelle mani di pochi… e che soli usufruiscono dei frutti della natura e dell’uomo, e costringono i nove decimi della popolazione a dover curvarsi sulla gleba o a intisichire nelle officine per guadagnarsi uno scarsissimo vitto togliendo ai propri figli perfino i beni più cari dell’intelletto e dell’anima, per dover cavar tosto un frutto dalle loro piccole mani”; cfr. Annali universali di statistica, economia pubblica, legislazione, storia, viaggi e commercio, compilati da Giuseppe Sacchi e da vari economisti italiani, Volume CXXXI della serie prima, luglio-settembre 1857, Milano, pp. 93 e 94.

2) Pino Aprile, Carnefici, Piemme, Milano, p. 367.

3) Sulle reali condizioni dell’analfabetismo nelle Due Sicilie cfr., tra gli altri, Giovanni Federico, European University Institute, “Ma l’agricoltura meridionale era davvero arretrata?” in Rivista di Politica Economica<span;>, 2007, III-IV, Bologna, Il Mulino, p. 332.

4) Archivio della Camera, Roma, Tornata del 24 marzo 1871; cfr. anche Pino Aprile, Carnefici, Piemme, Milano, 2016, pp. 383 e sgg.

5) Franca Rossetti, La statistica al tempo dell’unità d’Italia, MSF, Torino, 2011; la Rossetti è membro della Mathesis Nazionale, Società Italiana di Scienze Matematiche e Fisiche e del SISM , Società Italiana Storie delle Matematiche.

6) Cfr. ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1965, Roma, 1965.

7) Cfr. Giovanni Ferraro,  Aspetti della matematica napoletana tra Ottocento e Novecento, Ariccia, Aracne, 2013; Romano Gatto, Storia di una “Anomalia”. La Facoltà di scienze dell’Università di Napoli tra l’Unità d’Italia e la riforma Gentile (1860-1923), Fridericiana Editrice Universitaria, Napoli, 2000 , p. 82.

8) Raffaele De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello, Lapi, 1900, pp. 131 e sgg.

9) P. Matteo Liberatore, “Del brigantaggio nel Regno di Napoli”, in La Civiltà Cattolica, Serie V, vol. XI, 16 giugno 1864, ripubblicato in Brigantaggio legittima difesa del Sud, Editoriale Il Giglio, Napoli, 2000.

10) Cfr. Anna Gargano, “Maestri e scuola elementare nel Mezzogiorno durante la crisi dell’unificazione”, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Volume CXXX, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, 2012; il giornale in questione era “La Patria” e la patria a cui faceva riferimento era quella italiana e non quella napoletana…

11) Francesco Berlan, Almanacco statistico illustrato del Regno d’Italia, Anno III, 1865, Vallardi, Milano, 1865. I dati riportati dall’Almanacco sono quelli del 1862.

12) Per questa e altre notizie ci si riferisce al saggio di Anna Gargano, “Maestri e scuola elementare nel Mezzogiorno durante la crisi dell’unificazione”, in Archivio Storico per le Province Napoletane, Volume CXXX, Società Napoletana di Storia Patria, Napoli, 2012. Si tratta di un saggio ricco di spunti e fonti pur con qualche aspetto che lascia qualche dubbio: i fasci dell’Archivio di Stato, Ministero Istruzione citati, ad esempio, e nei quali sono presenti molti dei dati riportati anche in queste note, non sono il 715, I e II ma il 716, I e II; con la premessa che l’autrice scrive in relazione all’impossibilità da parte dei comuni di provvedere alle scuole, lascia perplessi la sua tesi successiva secondo la quale, tra gli ostacoli della scuola post-unitaria meridionale, risultava “certo anche l’indole dei meridionali di considerare con sospetto le innovazioni”; non quadrano, infine, neanche alcune cifre pure riportate nelle tabelle: erano 5037 nel complesso le scuole pubbliche e private e non 4957 come riportato nel saggio. Interessanti anche altri studi sul tema: Anna Gargano, Numeri in dubbio. “Scuola pubblica e scuola privata nell’Italia meridionale attraverso l’inedita inchiesta del 1861”, in A. Bianchi (a cura di), L’istruzione in Italia tra Sette e Ottocento, La Scuola, Brescia, 2014; Maurizio Lupo, La pubblica istruzione durante l’Ottocento borbonico: spunti per una rilettura 1815-1860, in G. Gili, M. Lupo, I. Zilli (a cura di), Scuola e società. Le istituzioni scolastiche dall’età moderna al futuro, ESI, Napoli, 2002; fondamentale, infine, la Collezione delle leggi de’ decreti e di altri atti riguardanti la pubblica istruzione promulgati nel già reame di Napoli dall’anno 1806 in poi, Stamperia del Fibreno, Napoli, 1861-1863, voll. 3. Utili anche le ricerche finora effettuate in questi anni (ed in corso di pubblicazione) a cura del Centro Studi Neoborbonici.

13) Gianfranco Mastrangelo, Le “scuole reggimentali”. 1848-1913, Roma, Ediesse, 2008 e cfr. soprattutto la serie degli, Annuari Statistici del Regno d’Italia.

14) Ester De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 116 e cfr. Mimì Coccìa e Giuseppe Della Torre, La ricostruzione dei consumi pubblici nel campo dell’istruzione nell’Italia liberale:1861-1913, Università di Siena, Siena, 1991.

15) Discorso rivolto da Francesco Saverio Nitti alla Camera dei Deputati l’8 maggio 1907: cfr. Francesco Iesu, Istruzione e salute pubblica in Provincia di Terra di Lavoro dal Regno di Napoli dei Borbone al Regno d’Italia.1734-1885, Edizioni Lavieri Scuola, S. Angelo in Formis,  2007.

16) Cfr. Annuari citt.

17) Donato Cosimato, Pasquale Natella, Donato Dente, La provincia di Salerno dal 1860 alla fine del secolo XIX : società e scuole, Morato, Napoli, 1977.

18) Si parla del governo-Renzi e degli anni 2014-2015 ma la linea è quella seguita dai governi precedenti e probabilmente di quelli che verranno.

19) Capitò, tra l’altro, a Pimonte e ad Agerola: cfr. Archivio di Stato di Napoli, fondo, Prefettura<span;>, fascio 218.

20) Archivio di Stato di Napoli, fondo Ministero Istruzione<span;>, fascio 716, II.

21) Giovanni Ferraro, Non sempre gli uomini che dimenticano hanno torto. Note critiche sulla storia della matematica nei territori napoletani, Aracne, Roma, 2013.

22) G. Ferraro (cit.) riporta le tesi di John Davis, Naples and Napoleon: Southern Italy and the European Revolutions (1780–1860), New York: Oxford University, 2006.

23) G. Ferraro cit.

24) L’amico delle Scuole popolari, Napoli, 5 luglio 1861.

25) Girolamo Nisio, Della istruzione pubblica e privata in Napoli dal 1806 al 1871, Fratelli Testa, Napoli, 1871, p. 54.

26) Cfr. A. Gargano cit. e il Regolamento per le scuole primarie de’ fanciulli di Napoli e del regno, 1816, artt, 13 e 14.

27) Cfr. Mariarosaria Gragnaniello, Didattica e istruzione nel Mezzogiorno preunitario, Napoli, Arte Tipografica, Napoli, 2006

28) Cfr. Luigi De Matteo, Una economia alle strette nel Mediterraneo. Modelli di sviluppo, imprese, imprenditori a Napoli e nel Mezzogiorno nell’Ottocento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013; tanti i saggi e i testi del prof. Luigi De Matteo utili per questi temi. Tra gli altri: Noi della meridionale Italia<span;>, Napoli, ESI, 2002; Il ritardo del Mezzogiorno dai Borbone a oggi. Un recente volume, i rituali politico-cultural-mediatici del nostro tempo, la storiografia economica, Storia Economica, 2/2013; La crisi dell’unificazione nel Mezzogiorno “oscurata” dal  tema del divario Nord Sud al 1860. Il caso del lanificio Sava di S. Caterina a Formello a Napoli e il tema storiografico della crisi dell’unificazione,  Storia economica 3/2011.

29) Cfr. ancora gli studi del prof. Luigi De Matteo cit.

30) A. Gargano, Regolamentazione cit.

31) G. Ferraro cit.

32) A. Gargano, Regolamentazione cit.; G. Nisio, Della istruzione pubblica e privata in Napoli, cit. p. 43.

33) Archivio di Stato di Napoli, Fondo Consiglio Generale della Pubblica Istruzione, Fascio 1548: cfr. Anna Gargano, “Regolamentazione e diffusione delle scuole private nel regno di Napoli tra il XVIII e il XIX secolo”, in Forum delle scuole storiche napoletane, Napoli, 2010.

34) Cfr. A. Gargano, Regolamentazione cit.

35) Cfr. ancora M. Gragnaniello cit.

36) Cfr. Salvatore Agresta, L’istruzione in Sicilia (1815-1860), Samperi, Messina 1995; per i dati successivi:   Caterina Sindoni, Scuole, maestri e metodi nella Sicilia borbonica (1817-1860), Vol. 1, Appendice statistica. Intendenze di Messina e Catania, Pensa Multimedia, Lecce, 2012; Salvatore Agresta e Caterina Sindoni, Scuole, maestri e metodi nella Sicilia borbonica (1817-1860), Pensa Multimedia, Lecce, 2012; Caterina Sindoni, Scuole, maestri e metodi nella Sicilia borbonica (1817-1860), Vol. 3, Appendice statistica. Intendenze di Palermo e Trapani. Pensa Multimedia, Lecce, 2012; Caterina Sindoni, Scuole, maestri e metodi nella Sicilia borbonica (1817-1860). Vol. 2, Appendice statistica. Intendenze di Caltanisssetta, Girgenti, e Siracusa/Noto, Pensa Multimedia, Lecce, 2012.

37) Cfr. Salvatore Agresta, L’istruzione in Sicilia (1815-1860), Samperi, Messina 1995.

38) Caterina Sindoni, Scuole, maestri e metodi nella Sicilia borbonica (1817-1860). Vol. 1, Appendice statistica. Intendenze di Messina e Catania, Pensa Multimedia, Lecce, 2012.

39) Si tratta di un interessante e semisconosciuto opuscolo di Luigi Settembrini citato in precedenza: L’università di Napoli per Luigi Settembrini<span;>, Napoli, 1862.

40) Anonimo, Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell’anno 1862, s.l. s.n. dopo il 1863.

41) Cfr. A. Gargano cit., pp. 104 e sgg.

42)  Enrico Cenni, Delle presenti condizioni d’Italia e del suo riordinamento civile, Napoli, 1862 pp. 213-229.

43) Il Diritto di Torino, 22 gennaio  1862, cit. in Anonimo, Colpo d’occhio su le condizioni del Reame delle Due Sicilie nel corso dell’anno 1862,  s.l. s.n. dopo il 1863. Anche il matematico Vincenzo Flauti scrisse vari libelli nei quali attaccò con violenza le leggi di riforma dell’Università di Napoli. “I libelli furono raccolti in volume recante un titolo che esprimeva senza peli sulla lingua il pensiero dell’autore: ‘Opuscoli tumultuariamente scritti e stampati da un nostro veterano professore per opporre qualche argine alle sciocche e vergognose riforme operate nell’istruzione pubblica e nelle accademie da soggetti ignorantissimi: raccolti da un suo antico allievo’. Altrettanto espressivi sono i titoli di alcuni degli opuscoli (ad esempio, ‘L’unguento e le pezze, alle piaghe fatte alla nostra istruzione pubblica da un cattivo barbiere, che vuole farla da chirurgo – specifico contro la calunnia, composto da un barbiere conoscitore di sua arte a solo scopo di vendicar l’onor nazionale di cui fu ogni tempo geloso’) e le indicazioni editoriali del volume: ‘nella nuova Babilonia, l’anno I del Caos che comincia dal 30 ottobre 1860 (ossia Napoli, 1860-61’)”: cfr. G. Ferraro cit.