Fa discutere la trovata dell’assessore del Comune di Como che celebra le nozze anche in dialetto. “Ma chist’ so’ pazz’!”. Ci verrebbe spontaneo esclamare così a sentir pronunciare un “Da quest mumènt chì sii marì e mijèe” da parte di un intraprendente assessore comunale leghista di Como per sancire l’unione civile di una coppia di concittadini. La scelta di celebrare il matrimonio civile in dialetto resterebbe archiviata nella rubrica del folklore locale se non fosse accompagnata da numerose altre provocazioni e iniziative leghiste legate all’utilizzo del dialetto locale come, ad esempio, l’opzione dialettale del centralino del Comune di Como o prove di dialetto per concorsi a cattedra e altre selezioni.
Nel resto dei Paesi occidentali le esigenze della globalizzazione hanno creato da anni un interessante mix socio-economico-culturale capace di rigenerare e rimodellare il tessuto sociale e civile lasciando ai margini le forme di intolleranza ed emarginazione. Al contrario, l’Italia, a cominciare dalla sua parte più ricca, si sta mostrando incapace di elaborare un adeguato modello sociale in grado di assorbire le ondate migratorie e trasformarle in nuove energie di sviluppo, lasciando il campo alle paure xenofobe mascherate dalle trovate leghiste: mentre gli extracomunitari vanno a rimpolpare la struttura produttiva nelle fabbriche e i “terroni” meridionali salgono nella scala sociale occupando alti incarichi soprattutto nel settore pubblico, i difensori della sedicente “razza padana” provano a marcare una differenziazione sociale e culturale ricorrendo al più intimo e inviolabile patrimonio posseduto: il dialetto.
Il ricorso ai dialetti locali nel Nord fa particolarmente impressione al Sud dove è ancora forte l’uso del dialetto quale principale se non unica forma di espressione verbale e da sempre ha rappresentato uno dei più efficaci terreni di umiliazione culturale da parte dell’istruito ed esemplare Settentrione. A pochi mesi dalle celebrazioni di un secolo e mezzo di unità italiana, dovremmo tutti riflettere su quanto l’Italia sia diventata famosa, invidiata e imitata nel mondo proprio grazie alle sue diversità e all’apporto congiunto dello spirito del nord e del sud per cui si ama la pizza come l’alta moda, il gelato e il design, la fantasia napoletana, la dolce vita romana e il business milanese. Sul federalismo si può ancora discutere, ma sulle differenziazioni basate sull’uso del dialetto stenderei un velo pietoso: per centocinquant’anni generazioni di studenti hanno dovuto obbligatoriamente leggere “Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno…” per forgiarsi nella lingua e la cultura italiana intorno alle tormentate vicende matrimoniali di una coppia comasca del Seicento che, in perfetto italiano, provò ad unirsi dinanzi al prete. Oggi, da una sala matrimoni dello stesso lago di Como, ci dicono che è meglio (per loro) che il matrimonio venga celebrato in dialetto con tanti saluti al loro illustre conterraneo Alessandro Manzoni che andava a “sciacquare i panni nell’Arno” per perfezionare il suo italiano. A noi poveri terroni, costretti ad accettare tutto ciò che il ricco Nord di volta in volta decide per il resto del Paese, non resta che aggrapparci a ciò che altrettanto bene sappiamo maneggiare da secoli: il nostro bel napoletano o siciliano che, bontà loro, è lingua, non dialetto di montagna.
Domenico Maria
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