Le imprese del Sud pagano mediamente tassi doppi rispetto a quelle del Nord per il credito. Il dato emerge da una ricerca dell’ufficio studi di Confartigianato, associazione delle imprese artigiane pubblicata a fine novembre. Certo, per la crisi il costo del denaro per le imprese aumenta in tutto il Paese, ma al Sud il differenziale con i tassi riservati alle imprese del Nord continua a salire. «A Crotone il tasso di un prestito raggiunge l’8,2%, mentre a Bolzano è del 3,9% – rileva “Il Mattino” (25.11.2012) – due volte di più. A Vibo Valentia ed a Cosenza i tassi sono al 6,9%, con un aumento, tra giugno 2011 e giugno 2012, di 161 punti rispetto al resto del Paese. A Trento il tasso per il credito alle imprese è del 4,52%, a Cuneo al 4,60%. A settembre 2012 il tasso medio per i crediti alle imprese in Italia era del 3,46 (4,42% per i prestiti al di sopra di un milione)».
Cala anche il volume complessivo dei finanziamenti erogati dalle banche alle piccole imprese del Sud: Sardegna -10,8; Molise -7,7%; Calabria -7,1%. Al contrario, la Liguria fa registrare un +4 %. Per sostenere gli investimenti a medio e lungo termine delle piccole e medie imprese meridionali (con finanziamenti da 10 a 200 mila euro) il governo Berlusconi aveva progettato la Banca del Mezzogiorno, prevista con apposito capitolo di spesa nella Finanziaria (oggi Legge di stabilità) 2010, ma avversata dalle grandi concentrazioni bancarie del Nord, prima fra tutte Intesa SanPaolo, proprietaria del marchio del Banco di Napoli, il cui ex amministratore delegato, Corrado Passera, fa il ministro per lo Sviluppo nel governo Monti. Il governo dei banksters non ha potuto cancellare la Banca del Mezzogiorno, già finanziata, ma l’ha radicalmente ridimensionata, confinando la sua attività in 250 uffici postali rispetto ai 7 mila 500 sportelli previsti originariamente (cfr. Sud: Così faranno morire la Banca del Mezzogiorno, LN 50/12). Ignorata dai presidenti delle Regioni meridionali, come Stefano Caldoro, che in Campania ha varato un Fondo per interventi di microcredito, malvista da Bankitalia, la Banca del Mezzogiorno ha erogato finora oltre 100 milioni di euro a Pim meridionali e fa registrare un utile netto di 3 milioni di euro (cfr. terza relazione trimestrale 2012 approvata dal Cda). Numeri ancora piccolissimi a fronte delle necessità del tessuto produttivo del Sud, ma positivi. Né i tassi vicini all’usura riservati alle imprese calabresi, però, né la sorte della Banca del Mezzogiorno, interessano alla classe politica meridionale. E neanche a tanti neo-meridionalisti impegnati a cercarsi un posto in lista per le prossime elezioni.
Storia : squarci di luce sulla rivolta del “sette e mezzo”
Frammenti di verità sul “Risorgimento” e l’unificazione italiana continuano ad affiorare nonostante il clima di regime imposto con le celebrazioni per i 150 anni, del quale la recente legge che rende obbligatorio lo studio dell’Inno di Mameli e del Risorgimento a scuola costituisce un esempio eloquente (v. LN notizie 9/2012). Il quotidiano di Catania “La Sicilia” (19.9.2012) ha dedicato di recente un ampio articolo del giornalista Dino Paternostro ad un episodio di repressione post-unitaria di inaudita ferocia, semisconosciuto al grande pubblico e pochissimo investigato dagli studiosi. La rivolta del “Sette e Mezzo”, chiamata così per la sua durata, scoppiò a Palermo nella notte tra il 15 ed il 16 settembre 1866. A combattere il nuovo governo piemontese, sei anni dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala che dette inizio all’invasione del Regno delle Due Sicilie, si trovarono fianco a fianco – scrive il quotidiano – «molti renitenti alla leva, molti disertori, diversi ex impiegati borbonici, preti che avevano avuto i beni ecclesiastici espropriati, ex garibaldini che aspettavano invano l’assegnazione delle terre, e mazziniani delusi. Un mix molto eterogeneo –aggiunge il giornale – unito da un profondo odio contro il governo formalmente italiano, che si comportava come una truppa di occupazione straniera. Gridavano slogan confusi e contraddittori: “Viva Francesco II, Viva Santa Rosalia, Viva la Repubblica”».
Il retroterra della rivolta è stato analizzato da Fernando Mainenti in un articolo apparso nel 2007 (cfr. “I pugnalatori di Palermo e la rivolta del ‘Sette e Mezzo’ del 1866”, in Agorà n. 29-30/2007). «La Sicilia nel 1860 aveva una bilancia commerciale con un attivo di 35 milioni, mentre quella del Piemonte non toccava i 7 milioni. L’isola apportò nel nuovo bilancio dello Stato un debito pubblico di sei milioni e 800 mila lire, a confronto del Piemonte liberatore che certificò un debito di 62 milioni e 36 mila lire». La legge Siccardi, con la quale il neonato Stato italiano confiscò i beni delle Congregazioni religiose che tradizionalmente assistevano le classi popolari, costituì un’ulteriore rapina per l’Isola. In Sicilia furono venduti all’asta 230 mila ettari di terre, divisi in 6175 fondi “ottimamente amministrati”. Lo Stato incassò 250 milioni in contanti. A questo va aggiunta la vendita dei beni demaniali, dalla quale la nuova amministrazione unitaria incassò 370 milioni. Inoltre dal febbraio 1861 in Sicilia era stata introdotta la leva militare obbligatoria, cancellando il privilegio antico, confermato dai Borbone, dell’esenzione. La leva militare piemontese, estesa all’Italia unificata, prevedeva 10 anni di servizio militare in fanteria, 12 in cavalleria, 14 in Marina, contribuendo a distruggere le famiglie siciliane e la loro economia. Tutti i figli maschi dovevano prestare servizio militare al Nord, uno strumento per l’indottrinamento e per disporre di forza armata per la repressione contro i meridionali insorti. Il 2 dicembre 1860 Vittorio Emanuele II si recò in visita a Palermo, dove comandava il luogotenente Massimo Cordero di Montezemolo (nella storia italiana i cognomi sono ricorrenti, n.d.r). Secondo Mainenti fu decisa allora una strategia di provocazioni che serviva a giustificare l’adozione del pugno di ferro. Agenti governativi furono infiltrati tra i tanti scontenti per spingerli ad atti inconsulti. «Da questo complotto – scrive Mainenti – nacque un primo episodio criminale, che diede inizio nell’Italia post-unitaria alle cosiddette “stragi di Stato”». Nell’ottobre 1862 furono accoltellate in diversi punti della città 13 persone con una tecnica terroristica. Una di esse morì per la gravità delle ferite riportate. La polizia arrestò un lustrascarpe, Angelo D’Angelo, di 38 anni. Ma l’inchiesta si svolse tra omissioni e manipolazioni. Il processo cominciò l’8 gennaio 1863 a Palermo. L’accusa per gli arrestati era di tentato omicidio con l’aggravante di “attentato diretto alla distruzione e cangiamento dell’attuale forma di governo”. Si voleva far credere che la mano degli accoltellatori fosse stata armata dal partito borbonico. Il Procuratore Guido Giocosa, un magistrato torinese, dopo il processo si dimise. Il processo si concluse con tre condanne a morte per ghigliottina, otto condanne ai lavori forzati a vita ed una condanna a venti anni. Due mesi dopo, nella notte tra il 12 e il 13 marzo 1863, scattò l’ondata repressiva con centinaia di perquisizioni dei carabinieri e 60 mandati di arresto con l’accusa di “organizzazione eversiva e attentato alla sicurezza dello Stato”. Gli arrestati erano tutti oppositori del nuovo regime piemontese, le prove contro di loro erano state costruite dalla polizia. Ma il fuoco dell’insurrezione continuava a covare ed a settembre del 1863 il governo inviò in Sicilia il generale Giovanni Govone, che aveva già preso parte alla repressione del cosiddetto brigantaggio eseguendo centinaia di condanne a morte. Govone fece tagliare l’acqua a molti paesi e fece mettere a fuoco le case dei parenti dei renitenti alla leva fuggiti sulle montagne. Ci furono episodi di ferocia disumana: un giovane sordomuto di 20 anni – scrive Mainenti – ricevette 154 bruciature sul corpo perché ritenuto un simulatore. Govone ebbe in premio l’onorificenza sabauda della Croce di San Maurizio e Lazzaro. Ma la rivolta ormai stava per esplodere. Il 1 agosto 1866 a Palermo si costituì un comitato segreto per organizzarla. Il 15 settembre bande armate calarono dalle montagne su Palermo. «Erano tutti uniti – scrive Fernando Mainenti – da un profondo odio antisavoiardo». Gli insorti attaccarono i posti di polizia, il dazio, i depositi di armi. Un drappello di bersaglieri fu decimato, 300 soldati piemontesi, con il maggiore Giulio Filastri che li comandava, furono uccisi. A Partinico gli insorti intercettarono una compagnia di granatieri, che fu massacrata. Sui muri di Palermo comparvero manifesti che incitavano alla rivolta armata contro “la banda di ladri che ha governato l’Italia per sei anni”. A Palermo i rivoltosi restaurarono i simboli borbonici e restituirono i nomi pre-unitari a strade e palazzi. Il 17 settembre insorsero numerosi paesi, dove il tricolore fu fatto a pezzi e furono issate di nuovo le bianche bandiere con i gigli.
La reazione piemontese fu rapida e spietata. Il 18 settembre dalla nave “Rosolino Pilo” furono sbarcati mille bersaglieri, il 21 sbarcarono di rinforzo 6 mila soldati di fanteria. La flotta piemontese, che aveva in porto sei fregate e due corazzate, cominciò un bombardamento indiscriminato contro Palermo che provocò centinaia di morti e migliaia di feriti. Il 22 settembre sbarcò il generale Raffaele Cadorna, che era reduce della sconfitta a Custoza, al comando di tre battaglioni di bersaglieri. «Fu la rappresaglia più feroce che la storia di Sicilia ricordi – scrive Mainenti – i bersaglieri sparavano a vista contro i cittadini inermi, contro chiunque fosse stato sorpreso in strada. In un solo giorno fecero 2 mila morti. Circa 3 mila 600 furono gli arrestati». Il 23 settembre 80 insorti trovati con le armi in pugno furono gettati in una fossa comune e mitragliati. Le fucilazioni continuarono per mesi. Lo stato d’assedio restò in vigore fino al 31 gennaio 1867. Delle vittime della repressione non fu pubblicato alcun bilancio ma, secondo stime, i morti furono circa 35 mila. La stampa dell’Italia unificata nascose la notizia del massacro. Più spazio dettero all’accaduto i giornali di Francia, Spagna ed Inghilterra, ma presentando la rivolta come filo-repubblicana e gli insorti come “briganti”. Quasi 150 anni dopo, della rivolta siciliana del “Sette e mezzo” e dello spaventoso massacro che ne seguì non c’è praticamente traccia nei libri di storia. Questa pagina tremenda dell’Italia post-unitaria non rientra nei programmi delle scuole italiane, dove invece, grazie ad una legge approvata quasi all’unanimità dal Senato (ha votato contro solo la Lega Nord) ci si accinge a studiare obbligatoriamente l’Inno di Mameli ed il “Risorgimento”. In una lectio magistralis tenuta alla Società siciliana di Storia Patria, il 9 settembre 2011, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, lo storico marxista Lucio Villari ha definito la rivolta del “Sette e mezzo” “una rivolta clerico-mafiosa” ( la Repubblica, 18.9.2011). (LN58/12)
Formazione: come non farsi manipolare dal “dialogo”, libro
La parola dialogo è diventata da alcuni decenni una parola magica, una “parola-talismano”carica di significati nascosti. Il dialogo è anche una tecnica per portare l’interlocutore su posizioni lontanissime da quelle di partenza pur di ottenere, a qualunque costo, un compromesso che eviti l’interruzione del dialogo stesso. Si tratta di una forma di trasbordo (termine marinaresco che indica il passaggio da un’imbarcazione all’altra) di tipo ideologico, inavvertito ed inconsapevole. L’Editoriale Il Giglio sta per pubblicare una nuova edizione italiana della celebre opera del pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo. Uscito nel 1965 sulla rivista Catolicismo e scritto negli anni della pressione ideologia del marxismo-leninismo, il saggio conserva intatta la sua attualità. La tecnica del dialogo, che non serve, come nel significato che alla parola dava la filosofia classica, a distinguere generi diversi con l’obbiettivo di giungere alla verità, ma piuttosto a costruire una “verità ideologica”, continua infatti ad essere utilizzata nei confronti dei cattolici come forma di guerra psicologica per farli cedere di fronte alla penetrazione dell’Islam, per fare loro accettare l’immigrazionismo che dissolve le identità culturali e, più in generale, per ottenere il loro cedimento su quelli che Papa Benedetto XVI ha definito i “principi non negoziabili”. Trasbordo ideologico inavvertito e dialogo, con un saggio finale di Guido Vignelli, autore anche della nuova traduzione, è dunque un manuale di difesa per cattolici, anticomunisti e per chiunque voglia contrastare la manipolazione delle coscienze.
La nuova edizione italiana è presentata da S.A.I.R. Dom Bertrand de Orléans e Bragança, Principe Imperiale del Brasile, pronipote di Teresa Cristina di Borbone-Due Sicilie. (LN58/2012)
DUE SICILIE: LE ECCELLENZE DEL REGNO NEL CALENDARIO 2013
È dedicato alle eccellenze produttive del Regno il Calendario delle Due Sicilie 2013, consueto appuntamento giunto alla 7a edizione. Il calendario (12 pagine a colori), che uscirà a giorni, riporta dati e profili delle imprese storiche meridionali. I testi sono stati curati dal prof. Gennaro De Crescenzo. (LN58/12)
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Apple: il mito di Jobs e la cattiva coscienza dei progressisti
L’Iphone 5, ultimo modello di “smartphone” (telefono cellulare multifunzioni) della Apple, la multinazionale informatica Usa fondata da Steve Jobs, viene prodotto in Cina in condizioni disumane dagli operai della Foxconn, azienda già al centro delle cronache per ripetuti casi di suicidio e per una rivolta degli operai, protagonisti di uno sciopero nel marzo 2012. Gli operai della Foxconn, che ha uno stabilimento a Tai Yuan, nella provincia dello Shanxi, (Nord della Cina), sono ospitati dall’azienda in dormitori con letti a castello sovraffollati, in locali con un tanfo insopportabile e pieni di rifiuti, tra scarafaggi e parassiti. Le finestre sono munite di sbarre per impedire i suicidi, avvenuti più volte tra i lavoratori.
Una “inside story” (reportage realizzato mescolandosi ai protagonisti della vicenda) sulla produzione dell’Iphone 5 è stata realizzata dal giornalista dell’agenzia di stampa cinese “Shangai Evening Post”, Wang Yu, e pubblicata dal Sito Internet Micgadget.com (www.micgadget.com). Il reporter si è fatto assumere dalla Foxconn, dove ha lavorato per 10 giorni. L’azienda – secondo il sito Micgadget.com – ha bisogno di 20 mila nuovi assunti per fare fronte alle richieste di produzione della Apple. L’obbiettivo di produzione è di 57 milioni di Iphone 5 all’anno.
Dopo un corso di formazione interna di 7 giorni, nel quale gli è stato inculcato il concetto di obbedienza senza obiezioni ai superiori in fabbrica, il reporter Wang Yu è stato assegnato al turno di notte, con inizio del lavoro a mezzanotte. Doveva marcare con una penna, alla catena di montaggio, un guscio di Iphone 5 modello black plate (venduto in Europa dalla Apple a circa 900 euro) ogni 3 secondi, 5 al minuto. Dopo alcune ore di lavoro Wang Yu è stato colto da dolori al collo ed al braccio. Il giornalista ha terminato il suo turno di lavoro alle 7 del mattino. Un’ora di lavoro alla Foxconn è pagata 27 yuan, circa 4 dollari.
Il clima in fabbrica è da caserma. Un operaio è stato tenuto in piedi in un angolo per 10 minuti come punizione per aver effettuato una breve sosta.
Il fondatore della Apple, Steve Jobs, morto nel 2011, è uno dei miti dell’intellighentsia progressista negli Usa ed in Europa. Attestazioni di stima al momento della sua morte sono venute dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e da numerosi esponenti politici anche italiani. Ai giovani il suo “stay hungry, stay foolish” (“Restate folli e affamati”) – una frase che Jobs disse di aver preso da una rivista della cosiddetta controcultura – è stato indicato come una filosofia di vita. La Apple è sponsor di diverse iniziative della cultura progressista e di sinistra negli Usa ed in Europa. Alla catena di montaggio della Foxconn – racconta il giornalista Wang Yu – gli operai e le operai ricollocavano ogni IPhone 5 sulla linea, dopo averlo lavorato, accompagnandolo con una imprecazione per reagire allo stress accumulato da ritmi e condizioni disumane di lavoro. Nel 2012 la Apple Inc. è diventata la prima produttrice di telefoni cellulari negli Usa. Gli utili sono aumentati del 94%.
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