Già in epoca angioina e in epoca aragonese, sebbene non si potesse ancora parlare di industria in senso lato, il Regno di Napoli conobbe un progressivo sviluppo economico nelle attività tessili, nella produzione della carta e nella costruzione navale. Dopo la stasi commerciale e manifatturiera del periodo del vicereame spagnolo, con l’indipendenza del trono di Napoli, raggiunta finalmente nel 1734 con Carlo VII di Borbone, si aprì per il nuovo Regno del ramo cadetto dei Borbone, un periodo di grande sviluppo per l’intera economia. Una delle prime cose che fece Carlo di Borbone, fu quella d’istituire il “Supremo Magistrato di Commercio” con il compito di sondare il terreno in modo tale da delineare un quadro abbastanza realistico delle possibili iniziative commerciali da intraprendere, dei possibili patners, di come il commercio si sarebbe potuto conciliare con delle attività produttive ad alto tasso occupazionale e, infine, di come migliorare la produzione delle attività manifatturiere e commerciali già avviate. Se Carlo VII diede il via a questo processo che in maniera razionale gettava le basi a quella che poi diventerà la fiorente industria del Regno di Napoli, Ferdinando IV, si preoccupò di proteggere l’industria napoletana che si apprestava a compiere i primi passi, tramite le barriere doganali, come farebbe anche oggi un qualsiasi paese in fase di industrializzazione. A questo scopo, il sovrano istituì nel 1800 una “Giunta per la migliorazione delle manifatture del Regno”. Durante il periodo napoleonico questa parabola ascendente non si fermò. Al contrario, si continuò sulla linea del protezionismo e della crescita, promuovendo attività importanti per il progresso scientifico e tecnico portate avanti da organismi quali: “La Regal Società d’Incoraggiamento per le scienze naturali ed economiche”, organismo che non morì con la restaurazione borbonica, ma che, al contrario, conobbe una certa continuità essendo in linea con i programmi dei precedenti sovrani. Una volta rafforzata l’industria interna, si provvide progressivamente all’abbattimento delle tariffe doganali in modo da facilitare il commercio con paesi terzi. Con Ferdinando II di Borbone, questo processo d’industrializzazione si faceva così complesso da generare dibattiti a livello politico, come era accaduto pochi decenni prima in Inghilterra, su alcune principali questioni riguardanti, ad esempio, l’opportunità o meno dello Stato d’intervenire nell’economia o sulla convenienza, di dare al settore industriale preminenza rispetto a quello agricolo. Se alcuni si lasciarono inevitabilmente prendere dall’euforia della “macchina” e della cosiddetta “civiltà del ferro”, teorici ed economisti quali Ludovico Bianchini, al quale si ispirò la politica del Regno, guardando alle conseguenze negative che ad esempio in Inghilterra aveva portato l’industrializzazione sfrenata, arrivarono a sostenere che l’industria non poteva essere lo scopo dell’attività sociale e che “se la civiltà non poteva consistere nella sola ricchezza, ugualmente non poteva stare nell’industria”. Ciò non precluse affatto lo sviluppo industriale nel Regno di Napoli. Gli diede piuttosto dei connotati più umani evitando le tragedie sociali, politiche ed economiche che si verificavano altrove e di cui un’ampia narrativa ci dà testimonianza. È anche vero che il Regno di Napoli, poi delle Due Sicilie, non ebbe il tempo di arrivare ai livelli di sviluppo inglesi, per cui le conseguenze negative dell’industrializzazione furono in ogni caso minori.
Rimane però il fatto che alla base c’era una concezione diversa dell’economia e del mercato che a lungo andare forse non avrebbe portato ad una situazione tanto diversa da quella inglese, o forse si. La differenza sostanziale con il modello inglese si delineava nella non totale fiducia in quella mano invisibile che, secondo Smith, avrebbe regolato il mercato che doveva, quindi, essere gestito unicamente da privati senza bisogno dell’intervento statale. Al contrario, nel Regno delle Due Sicilie si optò per una forma di economia che alle iniziative private affiancava iniziative pubbliche e politiche di protezione e incentivazione. L’industria non era il fine, l’arricchimento indiscriminato non era l’obiettivo, al centro della filosofia economica e politica del Regno rimaneva l’uomo per cui l’industria era al servizio della persona e non viceversa. Quest’ottica spiega, quindi, le parole di Francesco II di Borbone, l’ultimo sovrano di Napoli che invitava a trattare i lavoratori con “carità e mansuetudine”, parole che ci rimandano anche inevitabilmente al messaggio evangelico di cui la monarchia illuminata borbonica si voleva fare garante. di Francesca Romano
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