Lo spaventoso silenzio che la storia ufficiale ostenta riguardo i fatti di Casalduni, Pontelandolfo e dei complessivi 54 paesi rasi al suolo, ha generato incredulità al punto da metterne in dubbio la stessa esistenza. C’è poi chi, come il Mola, parlando della strage di Pontelandolfo in un articolo della rivista Storia in rete del febbraio di quest’anno dice che “il brigantaggio non fu una Vandea né una guerra civile perché in Italia l’unificazione del 1860- 61 non impose un regime rivoluzionario dalle conseguenze politico- sociali catastrofiche, non fu un terrore giacobino, né erse una classe contro altre, bensì, in termini molto più pacati e compatibili con l’Europa del tempo, sancì l’assorbimento degli stati preunitari da parte del Regno di Sardegna, che era omologo a quelli annessi e operò sulla base dei plebisciti.”
Innanzitutto, per onestà intellettuale, credo che occorra chiamare le cose con il loro nome eliminando una volta per tutte il termine brigantaggio per indicare la reazione armata dei sudditi del Regno delle Due Sicilie, fedeli alla monarchia borbonica che riconoscevano loro garante, contro una rivoluzione liberale di una minoranza interna appoggiata militarmente dall’aggressione piemontese.  Per quanto riguarda le analogie con il caso della Vandea, ritengo che queste siano molte di più delle differenze. Lampante analogia con la Vandea è la grande partecipazione alla reazione armata da parte delle classi contadine. Come nella controrivoluzione armata in Vandea abbiamo poi casi di chiese oltraggiate e clero assassinato. La differenza è forse che nel caso della Vandea gli artefici di tali atti dissacratori e blasfemi erano rappresentanti di una rivoluzione dichiaratamente atea, nel caso nostrano gli artefici rappresentavano un sovrano cattolico. Come in Vandea inoltre, la componente legittimista, un legittimismo di respiro europeo si contrapponeva a una rivoluzione antilegittimista. Non tutti i liberali meridionali si erano resi conto che la  rivoluzione in cui credevano, propugnata dalla propaganda liberale straniera, inglese in particolare, interessata alla nascita di uno stato italiano debole soprattutto nel Mediterraneo, era una rivoluzione contro il meridione e che ben presto la componente nord centrica avrebbe preso il sopravvento anche su di loro. D’altra parte non avrebbero potuto immaginarlo visto il colossale divario che all’epoca esisteva tra il piccolo, pedemontano, indebitato, Piemonte e i territori di quello che era stato da secoli l’illustre, potente, ricco Regno di Napoli. Non fu giacobino ma fu certo terrore quello che per quindici anni l’esercito piemontese perpetuò nel Sud anche sulla base delle teorie razziste e pseudoscientifiche del Lombroso che partecipò come medico militare alla campagna piemontese nel meridione. Basti pensare alle esecuzioni sommarie, ai rastrellamenti agli omicidi consumati nel silenzio con arma da taglio per non creare angoscia ai cittadini come a Campolattaro.
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che l’Europa del tempo condividesse i metodi brutali utilizzati dai piemontesi che il Mola definisce appunto pacati e compatibili con l’Europa del tempo. Al contrario, fonti dirette ma soprattutto indirette ci fanno pensare che anche l’Europa del tempo aborriva o avrebbe aborrito i fatti di Casalduni e Pontelandolfo. Sull’Osservatore Romano in un numero uscito a non più di un anno di distanza da quel 20 settembre 1870, si minacciava di rendere noti e di denunciare alla comunità internazionale i fatti di Casalduni e degli altri paesi rasi al suolo tentando in questo modo di incutere timore allo stato italiano che pur professandosi cattolico si macchiava di crimini non solo contro il cattolicesimo, ma contro l’intero genere umano. Per scriverlo evidentemente il rischio che qualcosa di grave fosse successo in quei paesi c’era e se poi lo si cita minacciando di renderlo noto in maniera più dettagliata forse dovrebbe venire il dubbio che questi metodi brutali non fossero proprio condivisi dal contesto internazionale del tempo. Considerare poi i plebisciti come prova del clima di grande legittimazione interna significa non considerare che l’utilizzo di uno strumento democratico come il plebiscito, non necessariamente comporta un reale esercizio della democrazia essendo per natura molto facile manometterne i risultati o cadere nell’irregolarità per cui le accuse ai plebisciti che nelle fonti della parte avversa sono dipinti come pagliacciate o buffonate non devono automaticamente escludersi come di parte.
Al di là di ogni diversità di opinione e interpretazione sulle vicende storiche, vediamo come la memoria dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni, tiri inevitabilmente in ballo questioni inerenti un contesto storico più ampio che senza dubbio occorre riscrivere. Ecco perché forse si preferisce ignorare le stragi o minimizzarne la gravità.
Francesca Romano