E’ già! Così avrebbe detto il compianto Angelo Manna al termine del parlare suscitando una risposta ovvia; solo che il sottoscritto per differenziarsi dal maestro l’ha posta all’inizio di un racconto crudelmente vero che ha pesato e ferito nella carne e nelle coscienze noi meridionali. Dirò di ciò che si è verificato un secolo e mezzo or sono ovvero da quando l’ultima fortezza del Regno delle Due Sicilie capitolava e nel nuovo parlamento sabaudo il D’Azeglio così si esprimeva: Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gl’italiani. Al giorno d’oggi e dopo tanto tempo quel pio desiderio espresso con l’intenzione di una futura certezza non ha avuto modo di concretizzarsi . Nelle oneste intenzioni del D’Azeglio si immaginava una nuova grande patria che avrebbe abbracciato il nord e il sud Italia. Per tanti di noi quelle parole risultarono vuote e continuammo ad immaginare la PATRIA come la terra che custodiva le spoglie dei nostri avi , che calpestavamo con deferenza e coltivavamo con amore. Questo credo ci faceva prendere distanze da chiunque altro intendeva la patria come cosa astratta pertanto confinandola nei pensieri e forse nei cuori.
150 anni or sono perdemmo tutto, la indipendenza, la cultura che avevamo ereditato dalla antica Grecia, le nostre ricchezze frutto di continui sacrifici e infine ridotti al livello di sub umani. Ogni riferimento a avvenimenti bellici a noi vicini non è puramente casuale. Il piemontese ha saputo fare meglio di tanti tedeschi nei nostri confronti. Il Regno delle Due Sicilie non sarebbe esistito più. L’esercito era stato piegato da traditori prezzolati e da mene riconducibili alla massoneria e alla carboneria come filiazione. I nostri sovrani avevano giustamente immaginato che la ribellione allo straniero potesse essere continuata con altri mezzi in attesa che le cancellerie europee condannassero la brutale aggressione alla quale avevamo dovuto soccombere. I soldati napoletani presi prigionieri rifiutavano di servire un nuovo re conoscendo ben presto patimenti e immani sofferenze venendo imprigionati e deportati in fortezze inospitali poste in zone impervie e fra le nevi eterne delle alpi, Finestrelle fu uno dei luoghi di sofferenza. Soldati sconfitti ma fieri del loro passato attraversarono l’Italia scortati dai loro aguzzini. In un secondo tempo visto che quei derelitti non cedevano all’obbedienza i governi si preoccuparono di sbarazzarsi di quegli eroi chiedendo a qualche stato sud americano qualche isola inospitale sperduta nell’oceano nella quale confinare persone che non venivano meno al giuramento fatto al legittimo re.
La nobiltà che non aveva tradito cominciò a cospirare, mentre in altre zone della penisola vi furono sollevazioni di popolo, spinto dal clero fu risollevata dalla polvere la bandiera gigliata. Gli occupanti piemontesi non ebbero vita tranquilla, sorsero bande e comitive formate da centinaia di patrioti coordinati e guidati da ex ufficiali. Non ci fu in tutto il meridione d’Italia nessuna zona immune da insorgenze, le azioni di guerriglia si susseguivano a ritmo continuo causando perdite tra le fila dei piemontesi. Già nella seconda metà del 1861 il governo unitario decise di applicare anche alle province meridionali la coscrizione obbligatoria. La firma era di ben 5 anni e di conseguenza ci fu una forte renitenza alla leva. La coscrizione nel periodo borbonico ammetteva innumerevoli esenzioni tipo essere sostegno di famiglia, ad esempio falciare il grano, effettuare le transumanze del bestiame e altro. Ora tutto ciò veniva cancellato e si correva il rischio di dover combattere contro altri fratelli che si opponevano in armi al nuovo governo. Da Roma giungevano ordini e poco danaro, ma malgrado la penuria di tutto si combatteva in Basilicata, in Terra di Lavoro, in Puglia , in Capitanata, in Abruzzo a Napoli territorio metropolitano era impossibile la guerriglia ma
la cospirazione era all’ordine del giorno. Il nuovo governo italiano non trovando soluzione per debellare le sedizioni e rivolte decise che tutto il meridione fosse considerato zona di guerra e occupato nei centri nevralgici dall’esercito che applicò la legge di guerra. 120.000 soldati furono stanziati nel meridione d’Italia, truppe leggere ovvero bersaglieri si resero protagonisti di fatti esecrandi, non erano da meno le brigate di ex garibaldini comandate dell’ungherese Turr. In questo modo trascorsero ben due anni e si giunse al 1863 anno nel quale il governo e parlamento italiano
si macchiò dell’infamia approvando una legge liberticida e draconiana valida soltanto nel nostro meridione . La legge portava il nome di un deputato nato e eletto nel collegio dell’Aquila e qui il maestro Angelo Manna avrebbe detto: e già ! poteva essere diverso ? no ! Un servo quando ha l’opportunità di cambiare padrone cerca di fare del tutto per ingraziarselo simile al cane scodinzola in attesa di ricevere la ricompensa adeguata, al nostro onorevole bastava passare alla storia nel modo più ignominioso. Questo tristo figuro era Giuseppe Pica- per inciso, la legge approvata dal parlamento italiano per la lotta all’odierno crimine organizzato si estempora particolarmente con l’articolo 41 bis-, ben niente in confronto alla precedente del 1863.
Con la promulgazione della “ legge Pica” fu messo in moto un meccanismo a dir poco diabolico infliggendo sofferenze disumane alle popolazioni del sud facendo vittime innocenti essendo la legge mostro giuridico avendo effetti retroattivi. Al pari dei soldati prigionieri furono fatti sfilare per le vie di Napoli donne con figli al seno che erano avviate al domicilio coatto quando non erano incarcerate perchè mogli di persone additate come briganti. Si dette largo spazio alle accuse quantunque non provate, bastava fare illazioni e si veniva premiati, erano i pentiti del tempo, le taglie sui briganti furono volute dal Settembrini. La guerriglia però si intensificava. I briganti catturati erano passati per le armi, i loro corpi profanati e vilipesi, spesso decapitati e le teste portate nei luoghi di origine esposte come macabri trofei. Alle bande fu inferto dallo stato unitario un colpo mortale con la creazione di un servizio informazioni che si contrapponeva a quello dei briganti, come conseguenza ci furono casi di doppiogiochismo. Lo stato spesso veniva meno alle promesse ed è il caso di Nicola Summa detto Ninco Nanno un particolare della sua storia merita di essere raccontato: In uno scontro con le truppe fu ucciso suo fratello Francesco il cui corpo fu caricato su un cavallo per essere portato ad Avigliano luogo di sepoltura. Durante una sosta nei pressi di Lagopesole il Summa incaricò un contadino di sorvegliare la strada se ci fossero stati soldati in giro nel qual caso doveva togliersi il berretto e fuggire. Nicola era distrutto per la morte del fratello e ancora di più per la perdita della donna amata aveva un oscuro presentimento avvertiva che la fine era vicina. Aveva trovato riparo con due guerriglieri in una grotta innanzi alla quale stava un pagliaio. I soldati di stanza ad Avigliano furono informati che il personaggio era nel loro territorio e si diressero verso il luogo, per prima cosa incendiarono il pagliaio e i fumi sprigionatisi invasero la grotta, per non morire soffocati uscirono prima i due guerriglieri successivamente il Summa ben armato di fucile e pistola, era stordito e non appena si sporse dall’anfratto fu colpito alla testa da un soldato col calcio di un fucile cadendo, fu sollevato da un carabiniere e nel contempo un’altra fucilata gli attraversò il collo. Si pensa che la morte di Nicola Summa fosse stata ben organizzata forse col fine inconfessabile che egli avrebbe potuto comunicare agli inquirenti i nomi di personaggi che facevano il doppiogioco. Fu nella sua vita un grande capo trascinatore di combattenti si dice che avesse fatto fuori più di venti cavalleggeri italiani, era audacissimo e con la sua strategia aveva sempre sconfitto forze di gran lunga superiori. Mano a mano la guerriglia si affievoliva, al giungere del 1870 il meridione d’Italia era pacificato restavano le cicatrici fame, miseria e malattie da briganti quali eravamo stati ci trasformammo in emigranti e continuammo a pagare con le rimesse dall’estero, non volendo facemmo arricchire lo stato che non avevamo voluto, i buoni postali,a fronte di un misero interesse, drenavano il frutto delle nostre fatiche provvedendo ad investire nel nord seguendo l’esempio dei barbari piemontesi che ci rubarono il nostro oro.
cav. Felice Abbondante