Due Sicilie: Napoli, folla commossa alla messa per Francesco II. Una Messa nella storica Chiesa di San Ferdinando di Palazzo, a Napoli, ha ricordato il 116° anniversario della morte del Re Francesco II di Borbone (Arco di Trento, 27 dicembre 1894). Il rito, celebrato secondo la liturgia tridentina dal reverendo Don Marco Cuneo, dei Trinitari della Mercede, è stato introdotto dall’Inno del Re cantato dal Soprano Stefania Tedesco, accompagnata all’organo da Nicla Cesaro. Sull’altare la bandiera del Regno delle Due Sicilie e lo stendardo dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio. La Guardia d’Onore è stata assicurata dal Cavaliere Costantiniano dott. Luigi Andreozzi. Il vice-priore della Confraternita di San Ferdinando Marco Crisconio ha ricordato i legami storici che uniscono la chiesa ai Borbone Due Sicilie. Tuttora il Priore della Confraternita di San Ferdinando è il capo della Casa Borbone-Due Sicilie. Il prof. Gennaro De Crescenzo, presidente del Movimento Neoborbonico ha ricordato la figura grande e nobile dell’ultimo Re delle Due Sicilie. All’omelia, Don Marco Cuneo ha ricordato il sacrificio di Francesco II, al servizio di Dio e della propria Terra, indicandolo come un esempio da seguire. Il Re che salvò l’onore delle Due Sicilie combattendo sul Volturno e difendendo fino allo stremo Gaeta visse in esilio e nell’anonimato – si faceva chiamare Signor Fabiani – ma con grandissima dignità l’ultima parte della sua vita generosa. In chiesa, in un’atmosfera commossa, c’erano soci ed amici dell’Editoriale Il Giglio e militanti neoborbonici giunti da diverse Regioni, e tanta gente richiamata dalla ricorrenza. Al termine della cerimonia, ancora le note dell’Inno di Paisiello a chiudere una cerimonia toccante. Nel nome di Re Francesco II. (LN35/10)
150 ANNI: TANTE ADESIONI ALL’APPELLO PER LA VERITÀ DELLA STORIA
(Lettera Napoletana) Sono molte e qualificate le adesioni già espresse all’Appello per la Verità della Storia, promosso dal Comitato per la Verità storica sui 150 anni dell’unificazione dell’Italia con il sostegno dell’Editoriale Il Giglio e del Movimento Neoborbonico. Studiosi, esponenti dell’associazionismo, professionisti, imprenditori, operai, impiegati, pensionati hanno accolto l’invito ad una mobilitazione delle coscienze per trasformare l’anniversario della retorica celebrativa in una occasione di studio e di riflessione sulle modalità di unificazione della penisola italiana.
Tra le prime e più significative adesioni registrate quelle del prof. Agostino Sanfratello, (Mazraat Yachouh, Libano), dello storico Francesco Mario Agnoli (Ravenna), del presidente del Centro Culturale Lepanto Fabio Bernabei (Roma), dei docenti universitari e ricercatori prof.ssa Consuelo Martínez Sicluna (Universidad Complutense, Madrid), Maria Carmelo Spadaro (Università Federico II, Napoli), Guillermo Pérez (Universidad de Salamanca), dei saggisti e storici Guido Vignelli (Roma), Antonella Grippo (Potenza), Franz Riccobono (Messina), Gustavo Rinaldi (Modica, Ragusa). E ancora, il dott. Giacomo Maria Oliva, coordinatore del Ministero Beni Culturali (Reggio Calabria), il giornalista di Radio Kiss-Kiss Gianfranco Lucariello (Napoli), Nicolò Bonfiglio, amministratore dei negozi “SiAmo Napoli” (Lugano), il dott. Arturo De Cillis (Roma), il Dirigente Scolastico Vincenzo Giannone (Salerno).
L’elenco delle adesioni pervenute, in continuo aggiornamento, potrà essere consultato sul sito dell’Editoriale Il Giglio (www.editorialeilgiglio.it) tra pochi giorni.
SUD: IL METRO’ DI NAPOLI, UN SIMBOLO DELL’ITALIA CHE CELEBRA I 150 ANNI
(Lettera Napoletana) Sopra la Stazione “Università” della Metropolitana di Napoli, non funzionante, troneggia dal 22 dicembre scorso la statua equestre di Vittorio Emanuele II di Savoia. La scelta dell’amministrazione comunale di Napoli è stata contestata e il Movimento Neoborbonico ha lanciato una petizione per chiedere che la statua venga inviata a Torino. Ma nella nuova collocazione la statua di quello che la retorica risorgimentale ha chiamato il “Padre della Patria”diventa il simbolo di un grande scandalo nazionale, dell’intreccio tra ceto politico meridionale e grandi imprese del Nord che divora da decenni le risorse pubbliche.
La realizzazione della Metropolitana collinare di Napoli ebbe inizio il 22 dicembre 1976. Governava la giunta di sinistra Pci-Psi guidata dal comunista Maurizio Valenzi, sindaco dal 1975 al 1983. Dell’opera mancava anche il progetto, ma la giunta Valenzi decise ugualmente di realizzare un buco nel sottosuolo di piazza Medaglie d’Oro per accedere ai finanziamenti della Comunità Economica Europea. Da allora 34 anni di lavori hanno prodotto 13, 5 km di tracciato, al ritmo di meno di 400 metri all’anno. “Un record mondiale di lentezza” (Ansa, 16.12.2010). La stima complessiva di quanto sia costato finora il Metrò di Napoli non è disponibile, la Società Metropolitana di Napoli manca perfino di un sito Internet. Solo la tratta Dante-Università ( non ancora operativa 7 anni dopo l’apertura della Stazione Dante) è costata – secondo i dati della Società Metropolitana di Napoli S.p.a. – 1 miliardo e 400 milioni finanziati dal Cipe (Roma, 18.12.2010). Il costo per chilometro è di 180 milioni di euro. Una cifra spropositata, senza riscontri in Europa. Il presidente della Società Metropolitana di Napoli, Gian Egidio Silva, al vertice della società dal 1995, ha ammesso che “si tratta di un caso-limite” (Ansa, 16.12.2010), ma riguarda – ha aggiunto – Roma e tutte le città storiche, che richiedono interventi speciali”. Ma a Roma – dove pure si è gridato allo scandalo per la durata dei lavori del Metrò – la costruzione della seconda linea, da Anagnina a Prati cominciò nel 1964 e riprese nel 1969, dopo un’interruzione di 5 anni. Anche a Roma, come a Napoli, vi sono stati importanti ritrovamenti archeologici, ma nel 1980 la linea Anagnina-Prati è entrata in funzione. Sia pure considerando i 5 anni di interruzione la durata complessiva dei lavori è stata di 16 anni, meno della metà rispetto a Napoli, ed il tracciato realizzato è di 18,425 km, oltre un terzo in più del tracciato del Metrò di Napoli. Le stazioni realizzate sono 37, contro le 14 di Napoli.
La Società Metropolitana di Napoli è una S.p.a. con la partecipazione di grandi imprese del Nord come Impregilo, (già Gruppo Fiat), Astaldi, Pizzarotti, Ansaldo. A progettare la tratta Dante-Garibaldi è stata la “Napoli Metro Engineering S.r.l”, controllata dalla Metropolitana Milanese S.p.a. . Se il tracciato si è sviluppato con una lentezza esasperante sono proliferate rapidamente invece le cosiddette “Stazioni d’arte”, inutili e costose, appaltate al ceto politico locale. Nei 17 anni in cui Antonio Bassolino è stato prima sindaco di Napoli, poi presidente della Regione Campania (1993-2010), ad allestirle sono stati chiamate gli stessi discussi artisti delle discutibilissime opere montate in piazza Plebiscito: da Iannis Kounellis ad Anish Kapoor, a Mimmo Paladino, Luciano Fabro, Rebecca Horn, nell’ambito dello stesso scambio denaro pubblico-consenso che ha dato vita al Museo Madre, divoratore delle risorse della Regione Campania. Quanto ai progettisti delle Stazioni si è fatto ricorso all’architettura della sinistra militante, da Massimiliano Fuksas, a Gae Aulenti, all’architetto del Kitsch Alessandro Mendini, autore del volgare rifacimento della Villa Comunale di Napoli, l’ex Real Passeggio di Chaia, trasformato in un Luna-Park. Si tratta degli stessi personaggi che adesso firmano gli appelli di una autodenominata “società civile” in vista delle prossime elezioni comunali. Ma il loro silenzio, come quello dei mass-media ed il disinteresse della magistratura coprono il dato impressionante che 34 anni e centinaia di miliardi dopo Napoli non ha ancora una metropolitana che si possa paragonare con quella delle grandi città europee, né sa quando potrà averla. Vaghe sono le indicazioni sui tempi di apertura delle Stazioni sul percorso che dovrebbe portare fino a Piazza Garibaldi. Si parla del 2011, 2012, 2013 senza indicare il mese per evitare nuove figuracce. Quattro anni occorrerebbero “per il completamento fino all’aeroporto di Capodichino” (Roma, 18.12.210) Ma al timing dei costruttori del Metrò non crede più nessuno. La Stazione Università, dopo precedenti rinvii, avrebbe dovuto essere inaugurata prima delle elezioni regionali del 28-29 marzo 2010, poi la data è stata spostata a dicembre, e ancora una volta l’obbiettivo è stato clamorosamente mancato.
Il Metrò di Napoli è diventato l’emblema delle Opere Pubbliche nel Sud. Ecco perché la scelta della giunta comunale guidata da Rosa Russo Iervolino di rimuovere da Piazza Bovio, sede dell’antica Borsa, la bella Fontana del Nettuno progettata da Domenico Fontana ed abbellita dalle statue di Pietro Bernini per fare posto alla statua equestre di Vittorio Emanuele II di Savoia è involontariamente carica di significato.
Quella statua è stata collocata sopra la Stazione chiusa di una metropolitana incompiuta, ed è stata scelta per decorare una piazza – come ha ricordato in un articolo il prof. Orazio Abbamonte, docente di Storia del diritto alla Sun (Roma, 27.12.2010) – che delimita il confine dell’area dove fu condotta l’operazione speculativa del Risanamento (1886). Sì , Vittorio Emanuele II di Savoia è il simbolo più adatto per il Metrò di Napoli, la metafora dell’Italia che celebra i 150 anni della unificazione. (LN35/10)
DUE SICILIE: UN LIBRO RACCONTA L ’EPOPEA DEI CACCIATORI NAPOLETANI
(Lettera Napoletana) È dedicato ai Cacciatori dell’Esercito borbonico l’ultimo saggio del contrammiraglio Mario Montalto appena pubblicato dall’Editoriale Il Giglio (I Cacciatori Napoletani 1821-1861, Napoli 2010, pp.72).
Nell’Esercito borbonico i Cacciatori costituivano la componente di fanteria leggera. Erano truppe scelte per reclutamento, addestramento, qualità degli ufficiali e dei sottufficiali, giovinezza dei quadri. Il libro ne ricostruisce le storia dal 2 luglio 1821 quando il Corpo assunse le caratteristiche che avrebbe avuto fino alla capitolazione di Gaeta, il 14 febbraio 1861.
Anche durante la difesa della Sicilia invasa da Garibaldi nonostante il tradimento dei vertici militari i Cacciatori seppero salvare l’onore e furono protagonisti di episodi di grande valore. A Calatafimi il 15 maggio 1860 quattro compagnie dell’8° Battaglione Cacciatori al comando del maggiore Michele Sforza si batterono per otto ore contro i garibaldini, infliggendo loro pesanti perdite. Un Cacciatore si impadronì della bandiera che Garibaldi aveva avuto dagli italiani a Valparaiso. Se non fosse arrivato, inaspettato, l’ordine della ritirata del generale traditore Francesco Landi, che rifiutò rinforzi e munizioni, i Cacciatori avrebbero chiuso quel giorno l’avventura di Garibaldi ed avrebbero cambiato la storia, scrive Montalto. Rimasti senza munizioni, i Cacciatori continuarono a combattere con le pietre, una delle quali colpì Garibaldi.
A Milazzo, a Palermo, nella difesa di Messina, ogni volta che l’esercito borbonico fu sul punto di infliggere il colpo decisivo agli invasori, c’erano sempre i Cacciatori in prima fila. E così quando la guerra si spostò sul continente. A Caiazzo i Battaglioni 4° e 6° dei Cacciatori, inflissero perdite per un migliaio di uomini alle truppe di Garibaldi, catturando otto ufficiali e mettendo i n fuga l’avventuriero, che si salvò fortunosamente. Il 1 ottobre 1860, nella battaglia del Volturno, le truppe napoletane attaccarono da Capua travolgendo le prime linee di Garibaldi. Un drappello di Cacciatori dell’11° Battaglione, al comando dell’Alfiere Mariadangelo, sorprese Garibaldi a bordo di una carrozza e gli uccise il cocchiere ed un cavallo, sparandogli addosso senza colpirlo. L’avventuriero non era stato riconosciuto e si salvò gettandosi in un fossato. Un ufficiale che era con lui fu preso da alcuni contadini e consegnato ai soldati napoletani. Anche in questo caso, i Cacciatori stavano per cambiare la storia. Ma l’episodio produsse una grande impressione e a Napoli – riferisce il Cappellano dell’Esercito Borbonico Don Giuseppe Buttà nel suo “Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta” – il 2 ottobre “un sontuoso feretro” uscì da Palazzo Doria d’Angri. Ebbe origine così la diceria popolare che Garibaldi fosse stato ucciso a Caiazzo e che “lo sostituisse politicamente un altro che gli rassomigliava”.
A Gaeta, nella notte tra il 4 e il 5 dicembre 1860, 120 Cacciatori scelti dei Battaglioni 7°, 8° e 9° comandati dal Capitano Francesco Simonetti effettuarono una coraggiosa sortita per minare alcune case del Borgo dalle quali i piemontesi avrebbero potuto colpire la Piazza. Una delle colonne di Cacciatori era guidata dal legittimista francese Émile de Christen. Le sentinelle piemontesi furono colte di sorpresa. “A cinque passi i piemontesi aprirono il fuoco ma gli uomini di de Christen li attaccarono alla baionetta e li sopraffecero. Gli artiglieri ebbero, così, tutto il tempo necessario per minare le case e farle saltare in aria”, scrive Montalto.
Dopo la capitolazione di Gaeta i Cacciatori combattevano ancora. In molti parteciparono alla guerriglia contro gli invasori nella formazioni di quelli che furono chiamati Briganti. Addosso a molti di loro fu trovato l’anello con l’indicazione del reparto di appartenenza che il Re Francesco II aveva distribuito ai soldati di Gaeta prima di partire per l’esilio. L’Alfiere Benedetto Cappuccio combatté nelle formazioni legittimiste del volontario carlista spagnolo Rafael Tristany fino al 1862, quando fu catturato dalle truppe francesi, e molti ufficiali dell’11° Battaglione Cacciatori, sciolto nel novembre 1860, combatterono agli ordini del colonnello Theodor Klitsche de la Grange negli Abruzzi. Altri, agli ordini del colonnello Francesco Luvarà, conquistarono Tagliacozzo il 10 gennaio 1861. Il tenente colonnello dei Cacciatori Federico De Lozza, che aveva comandato l’11° Battaglione, rifiutò la pensione del governo italiano e fu arrestato per cospirazione antiunitaria, avendo partecipato alla Congiura di Frisio. (LN35/10)
Mario Montalto, I Cacciatori Napoletani 1821-1861
Editoriale Il Giglio, Napoli 2010 pp.72
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