Oggi, a livello calabrese, sentiamo parlare esclusivamente di vino di Cirò, ma ci fu un tempo glorioso in cui nella Piana di Gioia Tauro era molto diffusa la coltura della vite, in alcuni territori come ad esempio Palmi era la coltura principale, superando di gran lunga l’olivo. Poi comunque i tempi cambiano, gli stili di vita pure e quindi circa 70 anni fa inizió una riconversione totale dei vigneti, che furono trasformati quasi tutti in oliveti e alcuni in agrumeti.
Ci troviamo a Cirello di Rizziconi, in una magnifica cantina che risale addirittura al 1750. Nel pianoro dell’attuale pontevecchio era ricca e prospera la viticoltura (ancora non era arrivata nemmeno la fillossera). La posizione è sicuramente strategica, essendo in estrema periferia di Rizziconi è vicino ai comuni di Gioia Tauro, Palmi, Seminara e Taurianova. Ai tempi il latifondista possedeva sicuramente grandi estensioni di terreno sparsi proprio in questi territori, quindi la cantina doveva servire queste zone ed essere in grado di trasformare le uve provenienti da centinaia di ettari.
Il primo metodo di lavorazione è rappresentato da 5 grandi vasche con al di sopra di ciascuna di esse una grande trave in legno di castagno con perno girevole a vite. Le uve venivano svuotate dentro le vasche, una volta piene venivano messe delle tavole al di sopra, la vite in legno veniva fatta ruotare e la grande e pesante trave scendeva facendo pressione sulle tavole, così facendo schiacciavano le uve e provocano la fuoriuscita del mosto. Dopo la fermentazione alcolica il mosto veniva raccolto e travasato nelle botti.
Un altro metodo di lavorazione che fu introdotto successivamente, parallelamente alla pressatura con le travi, fu quella di un torchio di ferro a vite, con funzionamento manuale. Non è molto chiaro il suo funzionamento essendo rimasto ben poco di questa macchina.
Ultima innovazione fu quello di una pressa idraulica con pistone a spinta verso il basso. Sotto la pressa sono presenti dei binari in cui venivani fatti scorrere dei carrelli carichi di uva, spinti sotto la pressa poi avveniva la pressatura e la fuoriuscita del mosto che veniva raccolto in una vaschetta di cemento.
Questo ultimo metodo di lavorazione non è tipico della tecnologia enologica, ma la cosa soprendente delle strutture produttive locali era la capacità di improvvisare nuove tecnologie usando la qualunque; infatti pare che questa fosse una pressa olearia poi adattata e riutilizzata per scopi enologici.
Sono passati 40 anni dall’ultima vinificazione eppure nell’aria è ancora vivo l’odore di mosto, ormai impregnato nel legno delle botti e nei mattoni delle pareti.
Tanti gli strumenti ancora presenti all’interno: oltre a numerosissime botti sono presenti vari imbuti, recipienti enologici, cerchi di botte, una pompa manuale, vari attrezzi per la manutenzione delle botti.
Ancora sono presenti delle bottiglie di vino, la più vecchia risale addirittura al 1920.
Da ammirare fuori gli “antichi parcheggi” ovvero delle pietre lavorate all’interno delle quali è inserito un anello metallico al quale tempo fa si legava l’asino o il cavallo.
La nostra è una storia gloriosa, le testimonianze ci sono, è innegabile.