In diversi articoli e in particolare in un articolo firmato da Giancristiano Desiderio qualche giorno fa sul Corriere (“Scacco ai neoborbonici”) viene recensito il nuovo libro di Dino Messina (“Italiani per forza”). Pur ringraziando ancora l’autore per il grande spazio concesso nel suo libro al sottoscritto (intervista di 10 pagine) e alle tesi neoborboniche (40 pagine complessive con un’intervista anche a Pino Aprile) forse è opportuno chiarire qualche punto. In sostanza Messina, anche se la finalità dichiarata sarebbe un’altra, conferma molte delle nostre tesi: la guerra di conquista ci fu, le potenze europee fecero il loro gioco, la ricchezza e il Pil erano a livelli simili tra Sud e Nord nel 1861 e le differenze aumentarono solo dopo. Apprezzabile, a questo proposito, anche lo spazio concesso al prof. Vittorio Daniele oltre che alle mie tesi e ai miei documenti relativi alle (false) notizie sugli analfabeti e sulle industrie. Meno apprezzabile lo scarso (o assente) rilievo dato al contributo fondamentale che la massoneria assicurò a tutta l’operazione-unificazione.
Nello stesso libro si evidenzia il contributo meridionale al processo unitario ma si cerca di ridimensionare l’opposizione a quel processo. Premesso che i famosi esuli meridionali a Torino, artefici del Risorgimento, erano meno di cento, della pluri-citata Guardia Nazionale fu Ricasoli (non citato nel libro) a sintetizzare la natura: “persone di perduta fama o implicate in processi non politici ma per furti, risse o omicidi”. In Sicilia, come afferma lo stesso Paolo Macry intervistato tempo fa da Paolo Mieli proprio sul Corriere, furono mobilitati “uomini selvaggi e violenti inviati dall’aristocrazia terriera siciliana a dare man forte al generale nizzardo”. In Basilicata la storiografia marxista (in testa Pedio) ha da tempo ridimensionato il “patriottismo” degli unitari coinvolti dai latifondisti contrari alla lottizzazione dei beni demaniali e tutt’altro che mossi da ideali garibaldini. Intanto l’unico studio archivistico finora portato alla luce è quello dell’Archivio di Stato di Torino (non citato nel libro): su 13.976 garibaldini risulta solo un 30% circa di meridionali e di essi ben il 16% proprio dalla Sicilia. Strano, poi, che per una guerra civile e interna al Sud i Savoia mobilitassero oltre 120.000 soldati (come riconobbe lo stesso D’Azeglio). Strano anche che tutte le tensioni interne della società meridionale non fossero mai diventate una guerra di quelle dimensioni e di quella durata (circa 10 anni) e scoppiata (fenomeno anche questo strano) esattamente dai giorni dell’arrivo di Garibaldi a Napoli. Basta tutto questo per dichiarare che i meridionali volevano l’unificazione italiana? Gli unitari, forse, erano un’esigua minoranza: quel “ceto colto” (espressione cara a Messina) che, per quanto “colto”, di certo non aveva il diritto di fare decine di migliaia di vittime (tra uccisi negli scontri, fucilati, incarcerati o deportati in virtù della famigerata legge Pica). Premesso, poi, che chi frequenta gli archivi sa bene che i documenti conservati sono un centesimo di quelli prodotti, chi aveva il diritto di organizzare una “rappresaglia” (definizione usata da Messina) contro un paese intero come avvenne a Pontelandolfo? Che ci facevano da quelle parti quei 41 soldati “inermi” (ossimoro involontario) e perché nessuno ha mai letto le fonti che dimostrano le loro “precedenti angherie” che la popolazione (pacifica per centinaia di anni) decise purtroppo di punire? Chi aveva il diritto di “banchettare sui resti di quel paese mentre si sentiva il rumore delle ossa abbrustolite”, come ci ricorda il diario di un bersagliere che secondo l’autore, però, forse fu “scritto dalla fidanzata” (e noi potremmo chiederci se fosse neoborbonica o avesse partecipato a quegli eventi travestita da bersagliera)? E come mai si applica il solito schema della parte per il tutto e non si parla di tutti gli altri paesi oggetto di saccheggi e di massacri in quei mesi (Fagnano, Auletta, Montefalcione, Scurcola o a Gioia del Colle, solo per fare qualche esempio)? Premesso che le cifre, come ha dimostrato anche Pino Aprile e come dimostrano tanti testi e tanti documenti, sono molto più alte, la domanda è semplice: chi aveva il diritto di ammazzare 10.000 persone tra “briganti e civili” com’è riportato sempre nel libro? Chi aveva il diritto di arrestare (decine i casi riscontrabili negli archivi locali) o di ammazzare anche i bambini come capitò a Castellammare del Golfo con la povera Angelina Romano della quale (sempre la parte per il tutto non potendo negare il tutto), si contesta la foto-fake sul web ma non il fatto che fu uccisa “a 8 anni dai soldati del re d’Italia” (così, in latino, è scritto nell’atto di morte)? A proposito di soldati, chi aveva il diritto di deportarne migliaia a oltre mille chilometri e a oltre mille metri di altezza in quei “luoghi estremi e punitivi” (parole di Messina) se nessuno voleva fargli del male? Lo stesso testo di Barbero citato per Fenestrelle, se letto attentamente e alla luce di nuovi studi archivistici, dimostra che le vittime furono diverse centinaia e di certo più numerose di quelle ritrovate nell’archivio locale. Del resto furono i Carabinieri nel loro museo di Roma (e non i neoborbonici) ad attestare (nel 1930!) il passaggio di “40.000 soldati napoletani” e le percentuali di mortalità erano superiori al 18% in condizioni ordinarie. Il rischio delle tesi neoborboniche, allora, sarebbe “la politica” e il loro carattere “divisivo”. Premesso che da 28 anni i neoborbonici non si sono mai candidati neanche nei condomini di casa loro, è più divisivo chi individua la continuità di certe scelte politiche che hanno di fatto costruito due Italie in 160 anni o chi tace sulle discriminazioni che hanno creato questioni meridionali prima sconosciute e tuttora irrisolte? È più divisivo chi evidenzia che “la tesi dell’arretratezza preunitaria meridionale fu inventata dagli unitari per giustificare i loro fallimenti” (il virgolettato è dello storico John Davis) o chi non ha mai scritto libri su quella gente che andava (e va) in giro a condizionare la politica locale e nazionale con i simboli di quell’Alberto da Giussano che forse non è neanche esistito (e aspettiamo appena possibile titoli del tipo “Scacco ai leghisti”)? È divisivo chi denuncia gli 840 miliardi sottratti al Sud in questi 17 anni o politici e intellettuali (altro che “auto-assoluzioni” delle nostre classi dirigenti) non se ne sono mai accorti? È divisivo chi si batte perché prima o poi i nostri ragazzi smettano di emigrare o chi accetta che il Sud con i suoi “4 milioni di emigranti diventò un mercato aggiunto per i prodotti industriali settentrionali favorendone lo sviluppo”? Chi chiede dopo 160 anni pari diritti e l’applicazione della Costituzione Italiana o chi non si accorge che da troppo tempo i nostri giovani hanno la metà dei diritti, dei servizi e delle speranze di quelli del resto dell’Italia e dell’Europa? Ecco perché, forse, il “trend” neoborbonico è cresciuto tanto e costringe tanti a scrivere articoli e libri interi ed ecco perché prima o poi, ci aspettiamo un libro e un articolo nel quale magari si scriva “grazie ai neoborbonici” e non “scacco ai neoborbonici”. Forse è anche grazie a loro se oggi si parla di certi temi e magari su questi temi si scrivono pure dei libri.
Corriere del Mezzogiorno 10/3/21