Camillo Benso, conte di Cavour, secondo la vulgata risorgimentalista, è un Padre della Patria. Il medesimo ci viene presentato come un «genio della politica», un eccelso diplomatico e, soprattutto, come il «grande tessitore» dell’unità d’Italia. La sua lingua però era il francese, mentre l’italiano lo parlava male e lo scriveva peggio. Infatti, perché potesse svolgere la sua attività politica “italiana”, dovevano correggergli i discorsi. In realtà, Cavour fu un ambiziosissimo personaggio, astuto e spregiudicato nel perseguire i suoi scopi, amico dei più influenti uomini della Massoneria italiana ed europea, massone egli stesso.
Cominciò a farsi conoscere sulla scena politica con una decisione cinica: mandò incontro alla morte 18mila bersaglieri piemontesi in Crimea, al fianco di Francia, Inghilterra, Austria e Turchia contro i Russi, solamente per poter sedere al tavolo della pace e “guadagnarsi” la simpatia delle due Potenze capitalistiche dell’epoca: Francia ed Inghilterra. Per le spese di guerra avrebbe provveduto il governo inglese… (rectius, le banche inglesi) con il prestito di un milione di sterline; il relativo debito, contratto nel 1855, verrà in massima parte rimborsato dal Regno d’Italia (e, quindi, da tutti i contribuenti italiani), che lo estinguerà solo nel 1902. In Crimea, i soldati piemontesi dovettero vedersela soprattutto con il colera, che ne fece morire ben 1300. Nel tanto esaltato – dagli storiografi risorgimentalisti – combattimento alla Cernaia (agosto 1855), in realtà un’insignificante scaramuccia, i piemontesi contarono appena 14 morti e 170 feriti. Ma in Crimea, oltre allo scandalo di nazioni cristiane che combattevano contro la cristiana Russia in favore dei Turchi, nello specifico caso del coinvolgimento del Piemonte, si arrivò al tragicomico paradosso che il Regno di Sardegna, il quale si stava preparando ad una guerra di «liberazione nazionale» contro l’Austria, al momento sua alleata, combatteva per difendere le ragioni dell’Impero ottomano, per secoli nemico storico della cristianità e «conculcatore dell’indipendenza e della libertà» degli Stati della penisola balcanica.
Nel 1849, Cavour era stato eletto al Parlamento piemontese, dal quale fece approvare numerose leggi contro la Chiesa cattolica. In particolare, nel 1850 fu approvata la legge Siccardi, che privava il clero dei suoi privilegi e delle sue immunità, aboliva alcune festività religiose e toglieva ai preti e agli Ordini religiosi la facoltà di acquisire proprietà senza l’autorizzazione governativa. In agosto, un padre servita negò gli ultimi sacramenti al ministro dell’Agricoltura e Commercio, Pietro Derossi di Santarosa, a causa della adesione di quest’ultimo alla legge Siccardi. Per rappresaglia, l’Arcivescovo di Torino, monsignor Luigi Fransoni, venne dapprima rinchiuso nella fortezza di Fenestrelle e poi mandato in esilio a Lione, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1862.
Nel novembre 1852, Cavour (che apparteneva al Centro-Destra) fu incaricato di formare un nuovo governo e si alleò con Urbano Rattazzi, capo del Centro-Sinistra, per sviluppare il suo programma di opposizione alla Santa Sede, con l’assenso del re Vittorio Emanuele II. Si trattò del famoso “connubio”, in realtà un “inciucio”, un ribaltone parlamentare, un’am-mucchiata politica realizzata al solo scopo di consolidare il potere. Nel gennaio 1855, Rattazzi, come ministro dell’Interno del Governo Cavour, presentò alla Camera dei deputati (adducendo ragioni finanziarie) una legge per la soppressione di tutti i conventi e monasteri negli Stati piemontesi e per il sequestro delle loro proprietà: una legge chiaramente “incostituzionale”, atteso che l’allora vigente Statuto Albertino garantiva l’inviolabilità della proprietà privata. Sebbene i vescovi avessero offerto, nell’aprile successivo, una somma equivalente a 900mila franchi, la legge fu imposta al Parlamento e divenne esecutiva il 25 maggio 1855. Dopo le ruberie operate dai Francesi, si trattò del primo colossale furto di beni della collettività, svenduti ai privati, male amministrati e dilapidati dallo Stato: un ladrocinio in danno dei poveri, assistiti dalla Chiesa. La celeberrima frase: «Libera Chiesa in libero Stato» fu infatti una truffa. Questa formuletta (che non era sua, ma che era stata concepita da Charles Forbes de Tryon, conte di Montalembert, con finalità diametralmente opposte, cioè per sottrarre la Chiesa alle influenze governative) ci è stata sempre presentata come la dimostrazione del “genio” e della grandezza di Cavour. Ma non è così! A parte il fatto che nessuno sapeva cosa volesse significare, essa veniva intesa da ognuno a modo proprio e, secondo la concezione cavouriana, la Chiesa semplicemente non contava e non doveva contare niente nella sfera sociale. La Chiesa come istituzione, come «corpo di Cristo», come «popolo di Dio», veniva cancellata. Con questa espressione, si intendeva semplicemente che la Chiesa doveva essere annullata, inglobata nello Stato e, se i sacerdoti ed i vescovi ostacolavano la sua politica, venivano perseguitati senza pietà. Infatti, nel corso del 1861, nell’ex Regno delle Due Sicilie, 71 vescovi su 89 finirono in prigione od in esilio; alcuni di loro vi restarono per molti anni. In nome della libertà e della costituzione, i governi “liberali” decisero la soppressione di tutti gli Ordini religiosi della Chiesa cattolica (sebbene l’articolo 1 dello Statuto Albertino dichiarasse il cattolicesimo religione di stato) e l’incameramento di tutti i loro beni. Ben 57.492 persone vennero gettate sul lastrico, cacciate dalle proprie case, private del lavoro, dei libri, degli arredi sacri, degli archivi, della stessa vita che avevano liberamente scelto. Ergo, il risorgimento di Cavour è stato soprattutto una guerra di religione, una guerra contro la religione, una guerra subdolamente condotta dai liberal-massoni contro la Chiesa cattolica e contro lo stesso popolo italiano; è stato sì un “risorgimento”, ma del paganesimo e della barbarie, realizzato attraverso corruzione, tradimenti, violenze, devastazioni, massacri, profanazioni, saccheggi, ruberie, intrallazzi e nefandezze d’ogni sorta.
Ma Camillo Benso, conte di Cavour, avrebbe almeno – dicono i suoi ammiratori – assicurato ai popoli italiani un regime di libera e democratica rappresentanza: un’altra menzogna! Nel Regno di Sardegna avevano diritto al voto 90.839 persone (appena il 2%) su di una popolazione di 4.325.666 abitanti. Lo stesso conte, negli anni in cui fu l’ago della bilancia della politica italo-piemontese, era stato eletto nel 1857 con appena 300 (sì, il lettore ha capito bene: trecento) voti. E, quando il 27 gennaio 1861 si svolsero le prime elezioni politiche per la formazione del nuovo Parlamento piemontese allargato all’Italia unita, su 418.696 elettori (l’1,9% dei complessivi 21.776.953 abitanti), i votanti furono 239.583 (pari al 57% degli aventi diritto), cioè l’1,1% dell’intera popolazione italiana. Attaccato in Senato dal maresciallo Vittorio Della Torre, che gli rinfacciava l’avversione della popolazione ai provvedimenti anticattolici della soppressione degli Ordini religiosi e della confisca dei loro beni, Cavour candidamente affermò che non gliene importava niente, rispondendogli testualmente: «Io, in verità, non mi sarei mai aspettato di vedere invocata dall’onorevole maresciallo l’opinione di persone, di masse, che non sono e non possono essere legalmente rappresentate». Per questo sedicente liberale, le masse popolari contavano… nulla! Tanto è vero che, nello Stato di Cavour, il 98 per cento della popolazione era escluso dalla vita politica.
Cavour era anche «abilissimo nel far quattrini»: quando in Piemonte fu istituita una tariffa doganale con dazi elevatissimi sull’importazione del fosforo, questo provvedimento sembrò ingiustificato ed inspiegabile. In seguito, si seppe che il conte era cointeressato in un’azienda di prodotti chimici e farmaceutici che produceva quella sostanza. Inoltre, questo «padre della patria», che oltre ad essere presidente del Consiglio dei Ministri reggeva ad interim il Dicastero dell’Agricoltura, era anche il principale azionista della «Società anonima dei molini anglo-americani» di Collegno, incettatrice di farina e di grano. È fin troppo chiaro che si trattò di due clamorosi casi di conflitto d’interesse.
Durante la carestia del 1853, poiché il costo del pane era salito alle stelle, la popolazione – esasperata perché affamata – inscenò una manifestazione di protesta sotto le finestre del primo ministro, davanti al palazzo del Governo, ma la folla venne affrontata con durezza dai carabinieri che mandarono i più agitati in ospedale ed in prigione. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, Cavour rovinò l’economia del Piemonte con la politica del libero scambio, adottata per compiacere gli alleati inglesi e francesi e – scriveva Cesare Cantù – «sacrificò all’Inghilterra tutte le manifatture italiane, e punì i più animosi imprenditori. Destro negli affari di Borsa, concluse prestiti vantaggiosi, ma i suoi stessi panegiristi l’accusano della leggerezza con cui trattava le finanze: gravò la proprietà, ruppe l’equilibrio fra l’agricoltura e le industrie». Come disse Ottavio Thaon, conte di Revel, il suo trattato commerciale con l’Inghilterra, «più politico che commerciale», aveva messo il Piemonte sotto la tutela mercantile inglese; il suo trattato con la Francia fu ugualmente rovinoso per l’agricoltura piemontese. Inoltre, per sostenere le enormi spese dovute alla sua dissennata politica militarista e guerrafondaia, fra il 1859 ed il 1861, il debito pubblico piemontese raggiunse i 2 mila milioni di lire, una cifra astronomica per quei tempi, specialmente per un piccolo Stato come il Piemonte.
Ma l’immoralità di questo c.d. «padre della patria» toccò il suo culmine quando, per preparare l’alleanza con la Francia, “usò” perfino sua nipote, la contessa Virginia di Castiglione (la quale, a giusta ragione, per i servigi resi in alcova, potrebbe essere qualificata come la «madre della patria»), per far invaghire l’imperatore Napoleone III e convincerlo ad appoggiare la politica espansionistica del Piemonte.
Successivamente convinse lo stesso re Vittorio Emanuele II a sacrificare sua figlia Maria Clotilde, dandola in sposa al cugino di Napoleone III, il depravato principe Girolamo Bonaparte. Nel 1857 ci fu la «spedizione di Sapri», organizzata da Carlo Pisacane e Carlo Nicotera, i quali si prefiggevano di promuovere un’insurrezione nel Regno delle Due Sicilie simultaneamente ad un’insurrezione mazziniana a Genova (di qui l’ostilità di Cavour al progetto ed ai suoi autori). In quell’occasione, Cavour scrisse: «I fatti di Ponza e di Sapri hanno costituito un delitto di ribellione e di latrocinio, punibile colle leggi penali ordinarie […] Il deplorando e criminoso fatto ha destato l’indignazione del Governo, indignazione divisa da ogni sensata ed onesta persona». Se fosse stato coerente, avrebbe dovuto condannare allo stesso modo anche la piratesca impresa di Garibaldi del 1860, della quale fu invece il principale promotore, commissionando al Nizzardo la criminale aggressione del Regno delle Due Sicilie, chiamata «spedizione dei Mille», nonché fornendogli i due piroscafi Lombardo e Piemonte, i finanziamenti necessari (nel bilancio del Regno d’Italia, presentato nel 1864 da Quintino Sella al suo successore Marco Minghetti, figuravano ancora 7.905.607 lire, pari ad oltre 90 milioni di euro, attribuite a «spese per la spedizione di Garibaldi») ed i rifornimenti (a Talamone).
Nell’ottobre 1860, con il pretesto di difenderli, invase i territori dello Stato della Chiesa e strappò le Marche e l’Umbria al Papa; subito dopo, invase lo Stato borbonico senza dichiarazione di guerra, asseritamente per… difenderlo dall’anarchia e dalla rivoluzione, che proprio lui, con la complicità sfacciata dell’Inghilterra, aveva organizzato, favorito e finanziato. L’ammiraglio Carlo Pellion, conte di Persano, nel suo Diario descrive gli sforzi economici profusi da Cavour per «comprare» gli ufficiali della marina borbonica ed, in una lettera, lo rassicura: «Possiamo ormai far conto sulla maggior parte dell’officialità della regia marina napoletana», mentre, in un’altra, gli riferisce: «Noi continuiamo, colla massima segretezza, a sbarcare armi per la rivoluzione, a tergo delle truppe napoletane». Fu un acerrimo nemico del Sud d’Italia ed, insieme a Vittorio Emanuele II, definì “canaglia” i soldati napoletani prigionieri di guerra; proprio loro che, canagliescamente, avevano favorito e completato l’invasione del Regno delle Due Sicilie, mentre si proclamavano amici dell’onesto re di Napoli, Francesco II di Borbone.
Si favoleggia circa la “umanità” di Cavour, ma in una lettera del 25 ottobre 1860, indirizzata a Persano, egli chiedeva di «inviare i prigionieri napoletani a Genova» (in condizioni igieniche vergognose), da dove avrebbero proseguito per i «campi di concentramento» in Lombardia, Piemonte, Val d’Aosta. Grande dovette essere la sua meraviglia quando venne a sapere dal generale La Marmora, incaricato di un’ispezione nei campi di prigionia, che quel «branco di carogne» rifiutava di arruolarsi tra le truppe sarde e «non voleva prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco II». Migliaia di militari borbonici furono internati in questi lager, con infiniti patimenti e con un alto numero di morti per malattie, fame, freddo, che solo Iddio conosce.
Nell’ottobre 1860, Cavour aveva fatto organizzare la farsa dei plebisciti (svoltisi tra intimidazioni, violenze e brogli elettorali), che sancirono l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. In tutta la fase storica di unificazione dell’Italia, plebisciti ed elezioni venivano infatti gestiti, regolati, controllati, guidati, manovrati e pubblicizzati da coloro che li avevano promossi, senza la presenza di alcuna opposizione o almeno di un’autorità neutrale. Perciò i risultati erano scontati. Alcuni anni fa fu rinvenuto il manoscritto di una “spia” (l’agente segreto “J.A.”) che aveva operato per conto del governo piemontese, Filippo Curletti, uno fra i maggiori organizzatori di plebisciti ed elezioni.
Da quelle pagine ingiallite dal tempo emergeva, in tutto il suo tragico squallore, l’incredibile perversione del conte di Cavour; una schiavitù psicologica, una malefica schizofrenia che condizionò fortemente la vita politica dello statista piemontese. Egli, infatti, non esitò a tramare con diabolica e, spesso, gratuita ferocia contro le Istituzioni degli altri Stati sovrani della Penisola e contro la stessa gente del popolo. Quelle confessioni, scritte sul letto di morte da uno dei principali testimoni di quelle nefandezze, sono servite a diradare quel misticismo storico menzognero, che ha fatto del Cavour un simbolo sacro ed intoccabile di una nazione nata male e cresciuta peggio, dove una parte di essa, il Sud, dopo oltre un secolo e mezzo, ancora langue in una condizione di sottosviluppo economico e di abbandono politico e sociale.
Nella sua qualità di agente segreto, Curletti era venuto a conoscenza dei numerosi segreti e complotti, che erano stati alla base degli avvenimenti sfociati, poi, nell’unificazione della Penisola italiana e nella vittoria definitiva dei liberal-massoni contro il legittimismo. Tali segreti lasciano emergere come il risorgimento, ben lungi dal poter essere definito un movimento popolare, voluto dalla gente e realizzato da eroi disposti a sacrificarsi in nome della libertà, fu invece in realtà un’azione lungamente programmata e pianificata da alcune élites massonico-borghesi che, machiavellicamente, non esitarono ad adottare stratagemmi tutt’altro che onesti o eticamente ortodossi, per giungere allo scopo.
Leggere i carteggi riguardanti i cosiddetti «padri della patria» lascia sgomenti, in quanto il loro contenuto è rivelatore di una vicendevole ostilità che contraddice drammaticamente l’idea scolastica di una reciproca stima ed affezione. Come siamo lontani anni luce da quella oleografia risorgimentale, così bene presentataci e fattaci studiare sui libri di scuola! E, purtroppo, vuoi per disinformazione, vuoi per pigrizia mentale, vuoi per malafede, vuoi per disinteresse verso tali argomenti, ancora oggi, sono moltissimi gli italiani ad essere convinti che gli avvenimenti storici in questione si siano svolti proprio come è stato loro «dato a bere» e che i protagonisti degli stessi siano stati dei «grandi uomini», piuttosto che individui loschi, spregevoli, disonesti e mascalzoni.
Il 17 marzo 1861, grazie agli intrighi di Cavour, alle sue invasioni banditesche, ai suoi bugiardi dispacci ed ai suoi plebisciti-truffa, veniva proclamato il Regno d’Italia. Cavour, in Parlamento, sentenziò che bisognava «imporre l’unità alla parte più corrotta (sic!). Sui mezzi non vi è dubbiezza: la forza morale e, se questa non bastasse, quella fisica». Della forza morale non fu possibile scorgere alcuna traccia. La forza fisica, invece, fu assicurata da una siepe di baionette che risultarono assai affilate. Giacinto de’ Sivo commentò: «Cominciava l’arte del boia».
Ecco chi era Camillo Benso, conte Cavour!
Ubaldo Sterlicchio