Fu l’ultimo Re delle Due Sicilie.
La faziosa storiografia risorgimentalista, sempre pronta a denigrare, calunniare e demonizzare i Borbone, con il chiaro intento di sminuirne la figura e renderne insignificante l’operato, lo definì spregiativamente con il nomignolo di Franceschiello. Questi pennivendoli prezzolati dal regime sabaudo-liberal-massonico ce lo hanno quindi descritto come un “ragazzo” indifeso e debole, come una persona bigotta, pavida ed incapace.
Invece non fu così!
Francesco II di Borbone ebbe solamente la sventura di trovarsi dalla parte sbagliata: quella di chi perde. E chi perde ha sempre torto, poiché la storia la scrivono i vincitori.
Quel giovane, esile e gentile, era dotato di un’etica politico-militare e di una morale cristiana granitiche, le quali gli “imposero” di prendere o di non prendere talune decisioni, in un momento difficilissimo della storia del Sud. In particolare, non volle piegarsi ad alcun compromesso ed, allorquando gli fu proposto di espandere i domini del Regno delle Due Sicilie mediante la spartizione (insieme con il Piemonte) dei territori dello Stato Pontificio, egli, che era per le cose chiare e giuste, nonché alieno dal compiere torti e sopraffazioni in danno di chicchessia, rispose deciso e risoluto: «Chella è robba d’ ‘o Papa!».([1]) Ma, anche qualora non si fosse trattato del Capo della Cristianità, bensì di qualsiasi altro Sovrano, italiano o straniero, sono certo che avrebbe risposto in maniera non troppo dissimile, poiché i Borbone non hanno mai avuto mire espansionistiche o brame di conquista ed hanno sempre nutrito un profondo rispetto per i diritti degli altri Monarchi.
Quale garante di questi princìpi, ne era allo stesso tempo sottoposto e ben pochi erano i margini discrezionali a sua disposizione. In ragione di questo, pur volendolo, Francesco II di Borbone non avrebbe mai adottato gli stessi metodi politici e le medesime strategie militari che Vittorio Emanuele II di Savoia stava, invece, usando proprio contro le Due Sicilie. E, mentre quest’ultimo poté giovarsi dell’operato di un primo ministro scaltro e cinico, quale fu Camillo Benso conte di Cavour, Francesco si trovò ad essere attorniato da un nutrito nugolo di traditori, i quali altro non fecero se non accelerarne la sconfitta.
Questa fu la sua vibrante denuncia: «Traditi egualmente, egualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l’opera della inequità, né sono eterne le usurpazioni … ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona … I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto ai fedeli nel mio Consiglio; ma nella sincerità del mio cuore io non potea credere nel tradimento … i promotori della guerra civile, i traditori al proprio paese ricevono pensioni, che paga il pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto»;([2]) questa la sua accorata confessione: «Per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia Corona … ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento … Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico … non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra»;([3]) questa la sua dolorosa testimonianza: «Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’Amministrazione è un caos; la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni son piene di sospetti: in luogo della libertà lo stato d’assedio regna nelle provincie, ed un Generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s’inchinino alla bandiera di Sardegna»([4]) e questa, infine, la sua drammatica profezia: «Voi sognate l’Italia e Vittorio Emanuele, ma purtroppo sarete infelici. … I napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di aver fatto sempre il mio dovere, ma però ad essi rimarranno solo gli occhi per piangere».([5])
Molti storici, non tenendo conto della sua onestà o, peggio, disprezzando anche con termini oltraggiosi il suo modo di governare, misurano quello che Francesco II avrebbe dovuto fare o non fare per «non perdere il Regno», alla luce però di logiche e di strategie stridenti con l’etica e la morale che hanno sempre caratterizzato l’opera sua e di tutti i re Borbone.
In procinto di lasciare Napoli e di imbarcarsi per Gaeta, il 5 settembre 1860 denunciò alle diplomazie d’Europa le manifeste violazioni del diritto internazionale che le orde garibaldine, sostenute dal Piemonte e dall’Inghilterra, stavano perpetrando ai danni delle Due Sicilie: «Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante ch’io fossi in pace con tutte le Potenze Europee».([6]) Quindi, profeticamente, sentenziò: «Questa guerra spezza ogni fede ed ogni giustizia ed arriva fino a violare le leggi militari che nobilitano la vita ed il mestiere di soldato … L’Europa non può riconoscere un blocco decretato da un potere illegittimo … L’azione di Garibaldi è quella di un pirata. Accettandola, l’Europa civile tollererebbe la pirateria nel Mediterraneo e le potenze marittime assisterebbero impassibili al rovesciamento del diritto pubblico».([7])
Ma l’Europa restò sorda a questi avvertimenti e, per aver tollerato le ingiustizie e le prevaricazioni denunciate dal re di Napoli nella metà del XIX secolo, ha poi patito tutte le sciagure da cui è stata afflitta nel successivo XX secolo.
A quest’ultimo riguardo è interessante leggere una pagina di storia poco conosciuta. Nel 1887, il barone liberale Nicola Nisco (1820-1901) pubblicò una biografia di Francesco II, nella quale, fra l’altro, asseriva che questi, mentre si trovava ancora a Napoli, non avrebbe ottenuto neanche l’appoggio diplomatico richiesto ai ministri di Russia, Prussia ed Austria. In risposta e smentendo tali asserzioni, un non meglio identificato signor Notus scrisse ed inviò al Nisco, sotto forma di relazione epistolare, un lunghissimo documento con il quale, fra l’altro, spiegava in dettaglio i motivi che avevano persuaso Francesco a lasciare la capitale del Regno: «Quelle tre potenze [Austria, Prussia e Russia, n.d.r.], giunte all’apice dell’onta nella quale vedevano collocato il diritto pubblico europeo, non tanto per Garibaldi e per Cavour, quanto temendo fortemente che Napoleone, dopo la guerra portata in Italia volesse con un programma occulto aprire il varco, di qua, di là, e verso la Polonia, e verso l’Ungheria, per giungere al completo laceramento della situazione europea creata dal Congresso di Vienna, di già si apparecchiavano per una comune e reciproca intelligenza sul da farsi, per un rimedio reciso ed assoluto».([8]) Il Notus riferiva inoltre che, in seguito a tale lavorio diplomatico, il Sovrano aveva ricevuto una lettera, definita “intima e familiare”, da parte di una delle tre potenze (scritta molto probabilmente dal cognato Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, n.d.r.) contenente queste precise raccomandazioni: «Nel caso che non poteste reggervi oltre in Napoli, cercate di riunire un corpo d’armata, campeggiando tra il Volturno ed il Garigliano, in attesa di risoluzioni».([9])
E, dopo aver smentito l’affermazione dello stesso Nisco (notizia questa che era stata creduta vera anche dallo storico Giacinto de’ Sivo) secondo la quale il re Borbone, dopo la battaglia del Volturno, avrebbe voluto piombare su Napoli con un esercito di 30mila uomini, lo stesso relatore puntualizzava che «Francesco non poteva sbilanciare l’alta confidenza fattagli dai sovrani nordici, di riunirsi in Varsavia il giorno dieci ottobre [1860, n.d.r.], onde forzare la mano di Napoleone per l’adempimento del Trattato di Zurigo».([10]) Infatti, il rispetto di tale Trattato di pace, stipulato in seguito all’armistizio di Villafranca, avrebbe vietato al Piemonte di invadere le Due Sicilie, vincolandolo invece alla formazione di un Regno dell’Alta Italia, base questa sulla quale si sarebbe potuti giungere, in un secondo momento, ad una Confederazione fra gli Stati italiani. Il Notus affermava quindi che, se il Congresso di Varsavia avesse avuto un esito positivo, Francesco II «da re pacifico, mercé una completa amnistia, sarebbe ritornato re delle Due Sicilie obliando il passato e spandendo l’operosa sua gioventù in utile della monarchia e dei suoi popoli».([11]) Ma il citato relatore, dopo aver evidenziato come sia l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, che il re di Prussia Guglielmo, fossero stati in tal senso pienamente d’accordo, così seguitava: «… con grande sorpresa si trovò in Alessandro II sì incerto e volubile, un mutamento radicale allo stabilito dai tre gabinetti. Napoleone era riuscito presso quel sovrano a girare la posizione politica mercé menzognere vedute».([12]) Il Congresso di Varsavia, pertanto, si concluse con un nulla di fatto, spianando così la strada all’incontrastata invasione piemontese ed alla caduta del plurisecolare, prospero e pacifico Regno delle Due Sicilie. Tuttavia, le pagine citate costituiscono l’eccezionale testimonianza di una persona che senz’altro visse intensamente quegli avvenimenti, considerato che i fatti risultano narrati con gran dovizia di particolari e, si ritiene, con indubbio rispetto della verità storica. Atteso poi che lo stesso scritto contiene informazioni diplomatiche confidenziali e riservate, non è da escludersi che l’estensore di quel documento sia stato un personaggio molto vicino all’ultimo re Borbone, se non proprio il medesimo Francesco II, il quale avrebbe assunto in tal modo la veste di “storiografo” d’eccezione.
Nonostante tutto, anche dopo la battaglia del Volturno, mentre combatteva a Gaeta, Francesco continuò ad agire sul fronte della diplomazia, sebbene fosse oramai consapevole che avrebbe potuto salvare solamente l’onore: «Fra i doveri prescritti ai Re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandi e solenni, e io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti Monarchi».([13])
Fu un re che aveva abbracciato un modello di regalità totalmente diverso da quello usualmente inteso. Grazie alla sua profonda religiosità, Francesco concepì la regalità non come un’egoistica gestione del potere, ma come un servizio verso i propri sudditi, che egli continuò ad amare, ben dopo la caduta del regno e la perdita del trono, sino alla fine dei suoi giorni. E, rivolgendosi loro, fu orgoglioso di puntualizzare che: «Ho combattuto non già per me, ma per l’onore del nome che portiamo … io sono napolitano; nato in mezzo a voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non ho conosciuto che solo la mia terra natale. Ogni affezione mia è riposta nel Regno, i costumi vostri sono pure i miei, la vostra lingua è pure la mia, le ambizioni vostre sono pure le mie. … Mi glorio di essere un principe che, essendo vostro, ha tutto sacrificato al desiderio di conservare ai sudditi suoi la pace, la concordia e la prosperità».([14]) Rivelò così l’orgoglio della napoletanità sua e della sua Famiglia, che per 126 anni aveva governato pacificamente il Sud d’Italia, perseguendo solo e sempre l’autentico benessere dei propri sudditi.
Avrebbe potuto, ma non volle piegarsi nemmeno per salvare i propri beni, cioè quelle cospicue ricchezze che egli aveva ereditato dagli avi Farnese e Borbone, così replicando al suo interlocutore: «Per ciò che concerne la mia fortuna confiscata, io non soffrirò – e voi come gentiluomo lo comprendete – che mi si pongano condizioni o mediazioni o che se ne discuta punto. Quando si perde un trono, importa ben poco perdere anche la fortuna; se colui che me lo ha tolto, un giorno me lo renderà, né costui ciò facendo, ha dritto alla mia gratitudine. Sarò povero come tanti altri che sono migliori di me; ed ai miei occhi, il decoro ha pregio assai maggiore della ricchezza».([15])
Francesco II, così come il padre, il nonno ed il bisnonno, da italiano autentico qual era, perseguiva il progetto unitario in coerenza con quanto i più grandi e veri patrioti italiani avevano tracciato: una Confederazione di Stati nella pace, nella giustizia, nella concordia e nella condivisione. Tale progetto non poté trovare una concreta realizzazione solo perché sgradito all’Inghilterra – la perfida Albione! – la quale vedeva nella nascita di una vera nazione italiana, forte e potente nel cuore del Mediterraneo, una sostanziale minaccia per i propri interessi. Fu questa la vera ragione che spinse i padroni del mondo di allora ad “assoldare” il Piemonte dei Savoia affinché fosse realizzato quel “capolavoro” politico chiamato Regno d’Italia, fondato sugli intrallazzi, sulle ruberie, sulla corruzione, sugli scandali, sulle menzogne, sugli inganni, sulla violenza, sui massacri, sull’odio razziale.
Confortato dalla benedizione del Sommo Pontefice, Francesco II (che era nato a Napoli il 16 gennaio 1836) si spense in esilio, ad Arco di Trento, il 27 dicembre 1894, laddove era conosciuto, nella più assoluta riservatezza, come «il signor Fabiani». Solamente dopo la sua morte gli abitanti di quel paesino tirolese conobbero la vera identità di quel distinto e gentile signore che, puntualmente, ogni mattina ascoltava la Santa Messa ed ogni sera partecipava alla recita del Santo Rosario presso la locale chiesa della Collegiata.
Aveva solo 58 anni. Il 27 dicembre di quest’anno, pertanto, ricorrerà e commemoreremo il 120° anniversario del scomparsa di questo grande re.
Nel suo testamento aveva scritto: «Ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto del bene, perdono a coloro che mi hanno fatto del male e domando scusa a coloro ai quali ho in qualche modo nuociuto».([16])
Napoli apprese la notizia della morte di Francesco II di Borbone dalle colonne de Il Mattino. Matilde Serao (1856-1927) scrisse in prima pagina un articolo dal titolo «Il Re di Napoli», laddove fra l’altro diceva: «Don Francesco di Borbone è morto, cristianamente, in un piccolo paese alpino, rendendo a Dio l’anima tribolata ma serena. Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco secondo. Colui che era stato o era parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità, colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re, questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi; ed ha preso la via dell’esilio e vi è restato trentaquattro anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo… Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone».([17])
Il testamento spirituale di Francesco II, destinatari del quale, oltre ai sudditi dell’allora Regno delle Due Sicilie, siamo anche noi loro eredi, è racchiuso nelle seguenti parole: «Vi è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire. Unitevi intorno al trono dei vostri Padri. Che l’oblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare».([18])
Francesco II di Borbone, quindi, oltre a fornirci, attraverso il proprio modello di vita, un prezioso esempio di amore e di fede per un futuro di dignità e di pace, ha in tal modo indirizzato a tutti noi, duosiciliani del terzo millennio, un messaggio di speranza che da anni ci sta guidando nel difficile cammino verso la rinascita culturale, sociale e politica del nostro Popolo.
dott. Ubaldo Sterlicchio
[18] Proclama Reale dell’8 dicembre 1860 citato; in Pier Giusto Jaeger, “L’ultimo re di Napoli”, op. cit., pag. 213.