n. 79 – Agosto 2014

 

DUE SICILIE: DIRETTORE “STORIA ECONOMICA”, DIVARIO NORD-SUD NON ERA SIGNIFICATIVO

(Lettera Napoletana) – Un articolo del prof. Luigi De Matteo, docente di Storia Economica all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale e direttore della rivista “Storia Economica”, offre interessanti elementi di valutazione sull’economia del Regno delle Due Sicilie e confuta sulla base di documenti diverse delle tesi anti-borboniche contenute nel recente libro di Emanuele Felice “Perché il Sud è rimasto indietro” (Il Mulino, 2014). L’articolo (“Il ‘ritardo’ del Mezzogiorno dai Borbone a oggi. Un recente volume, i rituali politico-cultural-mediatici del nostro tempo, la storiografia economica”), uscirà sul prossimo numero di “Storia Economica” (2/2013) ed è stato anticipato dalla rivista.

 

Il prof. De Matteo è decisamente lontano dalle posizioni degli studiosi, quasi tutti di provenienza non accademica, che da anni hanno avviato una revisione dei luoghi comuni della storiografia risorgimentale, ed ancora di più da quella che definisce “la pubblicistica dei primati”, vera ossessione degli storici del “rito antico ed accettato” risorgimentale alla Renata De Lorenzo (cfr. Due Sicilie: ‘Borbonia Felix, la storiografia autoreferenziale’, LN 66/2013). (Ma i primati dei Borbone, elencati con grande precisione nel libro di Gennaro De Crescenzo “Le industrie del Regno di Napoli” (Grimaldi 2002) esistono e sono i facta, contro i quali non valent argumenta…). Il prof. De Matteo qualifica come “martiri” i giacobini della “Repubblica partenopea” – secondo una definizione dell’avvocato amministrativista Gerardo Marotta rilanciata negli anni scorsi da giornalisti come Antonio Ghirelli e dallo scrittore Raffaele La Capria – che in qualunque Paese d’Europa, a partire dalla Francia rivoluzionaria, e non solo nella Napoli borbonica che si limitò a giustiziarne 122, sarebbero stati passati per le armi per alto tradimento ed intesa con il nemico. In ogni caso “martyrem non facit poena, sed causa”, ed i giacobini di Napoli erano una piccola avanguardia “illuminata”, autodesignatisi a guidare il popolo verso il bene che quest’ultimo non è in grado di vedere, secondo uno schema fatto proprio poi da Lenin. E per dirigere il popolo napoletano verso il bene non esitarono a massacrarlo, con l’aiuto decisivo delle baionette francesi.

 

Il direttore di “Storia Economica” assume poi, come molti altri suoi colleghi accademici, quale parametro di valutazione l’accettazione della categoria della modernità, che i Borbone Due Sicilie vagliavano criticamente ed alla quale complessivamente resistevano, e designa come “brigantaggio” la guerra nazionale e religiosa scoppiata nel Sud dopo l’invasione piemontese (cfr. Antonella Grippo, “Uno Dio e Uno Re”, Editoriale Il Giglio, 2008 ).

 

Proprio tenendo conto delle sue posizioni, dunque, gli argomenti dello studioso risultano più interessanti e stimolanti.

 

A proposito del divario economico tra Nord e Sud al momento dell’unificazione, che è diventato argomento di accesa discussione anche tra gli storici accademici, il prof. De Matteo definisce “fuorviante” la riduzione della storia economica del Sud “ingabbiata nella storia dell’origine e della cause del dualismo nell’economia italiana” ed osserva che questo tipo di comparazione “porta a confrontare economie profondamente diverse (per esempio nella differente vocazione mediterranea) con differenze notevoli, come nel caso del Mezzogiorno, anche al loro interno, e che avevano avuto scarsissime relazioni economiche e commerciali prima dell’Unità”. Si può concordare sulla sua valutazione, ma il presunto divario tra “l’arretrato Regno dei Borbone ed il Piemonte evoluto” è ancora parte integrante dell’insegnamento scolastico che i libri di storia propinano ai ragazzi del Sud. Certo, la vulgata risorgimentale è messa in discussione, come ha documentato il pamphlet di Gennaro De Crescenzo scritto per le celebrazioni dei 150 anni dell’unificazione (“I peggiori 150 anni della nostra storia. L’unificazione come origine del sottosviluppo del Sud”, Editoriale Il Giglio, 2012), e qualche studioso straniero senza condizionamenti ideologici aggiunge contributi importanti (cfr. la ricerca di Stéphanie Collet, dell’Université Libre di Bruxelles, sul valore dei titoli finanziari del Regno delle Due Sicilie) ma molto resta da pubblicare.

 

In ogni caso – per il direttore di “Storia Economica” – si può convenire sul fatto che “l’ampiezza del divario tra il Nord ed il Sud al momento dell’Unità in termini di Pil e di indicatori sociali e di fattori favorevoli allo sviluppo sia molto meno significativa di quella che separava allora l’Italia nel suo insieme, e lo stesso Centro-Nord, dai Paesi più avanzati dell’epoca”.

 

A Felice, il prof. De Matteo contesta anche il “luogo comune” e la “storiella” della costruzione della ferrovia Napoli-Portici allo scopo di consentire alla famiglia reale di raggiungere la residenza di Portici, e ricorda tra l’altro che alla costruzione della Napoli-Nocera-Castellammare, poi prolungata fino a Vietri, “la società Bayard (…) provvide senza alcuna agevolazione dello Stato, unico esempio in Europa, almeno a partire dalla crisi del 1836-39”.

Si tratta di un altro dei primati borbonici sui quali lo studioso ed esperto di sistemi ferroviari Lucio Militano (“Le ferrovie delle Due Sicilie”, Editoriale Il Giglio, Napoli 2013) ha offerto un significativo contributo, dimostrando che l’annessione piemontese provocò un brusco stop ai progetti di espansione ferroviaria dei Borbone, mentre il Piemonte si impadronì del superiore know-how tecnico del Regno delle Due Sicilie ed inaugurò in nome dell’ “Italia unita” linee già quasi ultimate dai Borbone.

 

E il direttore di “Storia Economica” ricorda che nel 1856 il Crédit Mobilier di Parigi, un importante Istituto di credito specializzato nei finanziamenti alle opere pubbliche, aveva deciso di acquistare “l’intero pacchetto azionario di una società per azioni napoletana, per stabilire a Napoli la sua sede operativa per l’Italia e promuovere nelle Due Sicilie iniziative in tutti i settori, ivi incluso quello ferroviario”. L’Istituto di credito francese rinunciò l’anno dopo “per ragioni – scrive De Matteo – verosimilmente anche legate alle vicende che avrebbero portato all’unità politica della penisola”. Cioè quando fu chiara la scelta filo-piemontese della Francia di Napoleone III.

 

Il prof. De Matteo rileva una serie di errori metodologi e di statistiche palesemente inverosimili utilizzate da Felice per la dimostrazione della sua tesi: l’arretratezza dell’attuale Sud sarebbe stata causata dai Borbone. Il resto (dopo l’unificazione) lo avrebbero fatto istituzioni e classi dirigenti sempre create, o almeno tollerate dai Borbone). A questo proposito va osservato che Felice, che insegna Storia economica all’Universitat Autònoma di Barcellona, per documentare il ruolo che avrebbe svolto la camorra in età borbonica cita Alexandre Dumas, cioè un romanziere pagato per raccontare le “imprese” di Garibaldi in Italia e da lui gratificato con denaro e privilegi, la cui autorevolezza scientifica è pari, se non inferiore, a quella di un cantante neomelodico.

 

L’autore dell’articolo contesta in sostanza la tesi centrale di Felice, sulla “origine borbonica dei mali del Sud”. Per De Matteo, sulla scorta della storiografia economica più attendibile, quella del Regno delle Due Sicilie era “un’economia agricolo-commerciale con almeno fino all’unificazione, un nucleo di industrie rivolte all’import substitution (politica economica che punta a sostituire i beni che si debbono importare con quelli prodotti dal mercato interno, in linea con l’orgogliosa indipendenza anche economica del Regno che i Borbone difendevano, n.d.r.) e una diffusa attività manifatturiera di tipo domestico e rurale. Una economia – prosegue De Matteo – evidentemente in ritardo rispetto ai Paesi più avanzati dell’epoca, e tuttavia non statica e immobile, ma con evidenti segni di rinnovamento a Napoli, in alcune province, e nelle aree collegate al commercio internazionale e con la capitale, così come in settori nuovi o di antica tradizione”.

 

Certo, riconosce il direttore di “Storia Economica”, quella delle Due Sicilie era una “dura competizione, in un contesto internazionale nel quale le grandi potenze industriali e commerciali controllavano gli scambi a tutte le latitudini e inondavano con i loro manufatti le economie agricolo-commerciali dell’Europa… (…) un clima che un contemporaneo negli anni ‘40 non esitò a definire di guerra commerciale”.

 

Parte dell’articolo del prof. De Matteo è dedicata a considerazioni sulla ricerca del consenso mediatico, sempre più diffusa tra gli studiosi. Alcuni di essi – e Felice è tra loro – appaiono condizionati proprio da questa ricerca anche nelle loro pubblicazioni. Condividiamo la critica del direttore di “Storia Economica”. Gli studiosi sono una cosa, i giornalisti ed i divulgatori un’altra. Ma questo vale anche per gli interlocutori di parte borbonica e neo-borbonica designati spesso dai mass-media, secondo criteri propri. Piuttosto che i “meridionalisti” improvvisati, che spesso ripropongono vecchi schemi ideologici, meglio la “pubblicistica dei primati”, nell’ambito della quale c’è forse qualche semplificazione e qualche ingenuità, ma vi sono anche studiosi abituati a frequentare gli archivi ed a studiare la storia non con l’applicazione di discutibili modelli matematici, ma sui documenti. E se restano fuori dalle Università è solo perché queste ultime in Italia restano saldamente presidiate dai custodi dell’ortodossia risorgimentale crociani e marxisti. (LN79/14).

 

 

TRADIZIONE: D. ROBERTO SPATARO, LA MESSA TRIDENTINA DIFENDE IL SENSO DEL SACRO

(Lettera Napoletana) – Don Roberto Spataro S.D.B., segretario della Pontificia Academia Latinitas, e docente all’Università Pontificia Salesiana, ha celebrato il 27 luglio scorso a Bacoli (Napoli), nella Parrocchia di S. Anna Gesù e Maria, una Messa in rito romano antico su invito della sezione di Napoli di Una Voce, alla presenza di oltre 100 fedeli. Latinista, docente di letteratura cristiana, Don Spataro è un difensore della liturgia tradizionale ed ha tenuto conferenze sul rito tridentino. LETTERA NAPOLETANA gli ha rivolto alcune domande.

 

D. Ritiene che la Messa in rito romano antico sia una risposta, per i fedeli che vi partecipano, alla perdita del senso del sacro nella nostra società?

R. Sono d’accordo. Nel mondo occidentale, com’è sotto gli occhi di tutti, il processo di secolarizzazione è drammaticamente sempre più aggressivo ed invadente. Pertanto, è necessario offrire spazi ove il “sacro”, cioè la presenza oggettiva di Dio, sia comunicato e appreso, accolto e assimilato. La Messa “tridentina” privilegia un linguaggio, fatto di parole in una lingua riservata a Dio, e di eloquenti simboli, che coinvolgono tutti i sensi esterni ed interni dell’uomo, capace di trasmettere immediatamente ed efficacemente la bellezza e la potenza del “sacro”.

 

D. Come spiega il fatto che soprattutto nei Paesi anglosassoni, ma anche in Brasile, siano soprattutto i giovani ad essere attirati dal rito tradizionale?

R. Nei paesi anglosassoni c’è un fenomeno significativo: non sono pochi i giovani che da varie denominazioni protestanti aderiscono al Cattolicesimo e che amano la Messa “tridentina” in quanto in essa trovano ciò che, mossi dalla Grazia di Dio, cercavano: la natura sacrificale della Messa, il ruolo insostituibile del sacerdozio ordinato, la fede nella presenza reale e nella transustanziazione. Inoltre, percepiscono nella Messa tridentina una vera e propria summa della fede cattolica cui hanno dato la loro adesione con entusiasmo e, a volte, subendo ostacoli ed incomprensioni.

 

D. Per quanto riguarda il clero, si trovano molto più facilmente sacerdoti di 30-40 anni disposti a celebrare il rito tridentino che sacerdoti di 50-60. Come mai?

R. I sacerdoti che oggi hanno tra i 50 e i 70 anni sono stati formati negli anni del postconcilio quando vigeva un certo sospetto, se non una vera e propria ostilità, verso la Tradizione, e si ricercava, nella teologia e nella pastorale, un “novum” concepito ingenuamente come “bonum”. Sono pertanto psicologicamente bloccati verso ciò che ritengono un “ritorno al passato”. Nelle generazioni più giovani, soprattutto in quei seminaristi e giovani che hanno seguito con gioia l’insegnamento del Papa Benedetto XVI, questa precomprensione non c’è, poiché non hanno vissuto né gli anni del Concilio né i primi decenni ad esso successivi. Per alcuni di essi, la Tradizione è una risorsa, un “ritorno al futuro”, se mi è lecito l’ossimoro.

 

D. In una sua recente conferenza lei ha parlato di “minoranze creative” in riferimento ai gruppi di fedeli che si organizzano per chiedere ai parroci di celebrare con il Vetus Ordo ed ha ricordato che le riforme, anche liturgiche, sono partite a volte da piccole comunità monastiche.

R. Il concetto di “minoranza creativa” è stato valorizzato dall’allora cardinale Ratzinger per descrivere gruppi di persone che, con le loro motivazioni robuste, la loro testimonianza di vita, a volte con la loro organizzazione, e soprattutto con la loro adesione ad un pensiero “forte”, ispirato ai valori dell’umanesimo cristiano, i “principi non negoziabili”, possono rigenerare dall’interno la società corrosa dalla “dittatura del relativismo”, un po’come le antiche comunità monastiche hanno salvato e rinnovato creativamente la civiltà romana al suo tramonto. In fondo, quello di “minoranza creativa” è un concetto vicino alla categoria biblica del “piccolo resto”, quei pochi che, per la loro fedeltà a Dio, diventano strumento della sua azione redentrice. Anche nelle epoche più oscure della storia, Dio, nella sua Provvidenza, suscita sempre la presenza di persone pie e buone, umili e coraggiose.

 

D. Dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI pensa che il clima sia cambiato e che, almeno in Italia, la diffusione del rito romano antico avvenga con maggiore difficoltà?

R. Non sono in grado di stabilire una “classifica” nazionale delle resistenze al Motu Proprio. Certamente, membri del clero ed anche noti prelati in Italia non hanno nascosto la loro opposizione al Summorum Pontificum. Mi sia consentito affermare che, non poche volte, coloro che esprimono il loro dissenso riguardo alla Messa tridentina ne hanno una conoscenza approssimativa e contestano un documento pontificio senza averlo mai letto interamente!

 

D. Per i tanti cattolici disorientati dall’aggressione della cultura laicista e dalla desacralizzazione pensa che il ritorno della Messa Tridentina sia una speranza?

R. Sicuramente! Attorno a questa nobile forma liturgica, realmente culmen et fons, fedeli laici e sacerdoti organizzano la propria vita spirituale. Vi attingono i tesori della Grazia divina e vi trovano, come posso constatare soprattutto tra i fedeli laici, un alimento robusto per corroborare la propria fede e dare una coraggiosa testimonianza, in un contesto che tende a marginalizzare il Cristianesimo e la sua incidenza sociale, con i risultati che hanno reso il mondo, proprio perché indifferente o ostile a Dio, meno umano e misericordioso, come ci ricorda il Papa Francesco. (LN79/14).

 

 

BATTAGLIA DELLE IDEE: “CRISTIADA” AD OTTOBRE NEI CINEMA ITALIANI

(Lettera Napoletana) – “Cristiada”, il film sull’epopea dei Cristeros messicani, uscirà finalmente ad ottobre nei cinema italiani. Lo ha annunciato il distributore Dominus Production, che lo renderà disponibile sul mercato italiano. Il DvD sarà in commercio a gennaio 2015.

Uscito nell’aprile 2012 in Messico, e nel settembre dello stesso anni negli Usa, (titolo: “For Greater Glory”) il film racconta dell’insurrezione cattolica in Messico contro il governo massonico di Plutarco Elias Calles (1926-1929). Almeno 85mila messicani, al grido di Viva Cristo Rey!, che valse loro il soprannome (dispregiativo) di Cristeros, presero le armi organizzandosi in bande. La guerriglia scoppiò quando la Chiesa, di fronte alla persecuzione del governo di Calles, decise di celebrare clandestinamente le Messe ed i sacramenti (1 agosto 1926).

 

Il Papa Pio XI denunciò la persecuzione dei cattolici messicani con l’enciclica Iniquis Afflictisque (18 novembre 1926) e successivamente con le encicliche Acerba Animi (1932) e Firmissimam Constatiam (1936).

 

La storia dei volontari cattolici ha entusiasmato il pubblico degli Stati Uniti, dove “The Greater Glory” ha totalizzato nel primo fine settimana di programmazione 1 milione e 800mila dollari (5 milioni e 669mila complessivi). Ma questo non è bastato a vincere l’ostilità dei mass-media e dei distributori in Europa, anche se in Francia l’autorevole Sito specializzato “Allocine.Fr” ha definito “Cristeros” – questo il titolo con il quale è uscito – “tra i migliori film di tutti i tempi”.

 

In Italia “Cristiada” era stato proiettato in anteprima mondiale il 20 marzo 2012 all’Istituto patristico Augustinianum di Roma, alla vigilia della partenza per il Messico di Papa Benedetto XVI ed alla presenza del produttore messicano Pablo Josè Barroso, che ha cercato inutilmente di attirare l’attenzione sul film. Finora, a parte qualche proiezione organizzata da associazioni cattoliche, Cristiada era scaricabile solo da Internet nella versione inglese.

 

Da ottobre arriverà finalmente nei cinema, anche se molto probabilmente, in numero ridotto di sale. Varrà la pena di andarlo a vedere, sostenendo un distributore che ha rotto il muro di ostilità e di indifferenza. (LN79/14).

D.M.