“ Oh voi che fate le leggi e che giudicate gli uomini rispondetemi e dite: prima che costoro fossero caduti nel delitto, che avete fatto voi per essi? Avete voi educato la loro fanciullezza e consigliata la loro gioventù; avete sollevata la loro miseria, li avete educati col lavoro; avete voi insegnato ad essi i doveri del loro stato?”.
Con questo interrogativo che il Perucatti rivolse alle autorità non prima di averlo rivolto a sé stesso, si apre uno scritto destinato a divenire quasi una pietra miliare nella storia del sistema penitenziario italiano, ovvero: “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, pubblicato nel 1956. Da quattro anni Eugenio Perucatti era stato nominato direttore del carcere di Santo Stefano dove si era trasferito insieme a sua moglie e ai suoi dieci figli. Ma chi era Perucatti? Nato nel 1910 a Napoli da padre piemontese e madre napoletana, il Perucatti si formò nei collegi salesiani che probabilmente non fecero altro che nutrire ed accentuare la sua già innata vocazione all’educazione e al recupero delle persone traviate e abbandonate dalla società, in particolare dei ragazzi. Poliziotto, istitutore di diversi importanti centri per la rieducazione dei minori, insegnante elementare per una classe speciale di ragazzi di strada, censore. Una vita dedicata alla formazione e al recupero dei giovani. Al periodo giovanile risale la stesura di tre importanti opere che la dicono lunga sull’importanza da lui attribuita al lavoro e alla religione nell’ottica dell’educazione o rieducazione: “L’educatore di fronte al ribelle o l’insofferente alla disciplina”, “L’educatore e la psicologia applicata al lavoro”, “La religione nella psicologia emendativa”. E’ sulla base di profonde riflessioni che si spiega il senso della riforma carceraria che mise in atto nel carcere di Santo Stefano dal 1952 fino a poco prima della chiusura del carcere avvenuta nel 1965.
Come emendare degli uomini se questi vivono in condizioni disumane? Una volta arrivato sull’isola nel 1952, Perucatti si trovò a gestire un carcere senza acqua, senza elettricità, con una rete fognaria inadeguata, con i detenuti chiusi nelle celle, fermi per giornate intere. La prima cosa che fece fu installare un piccolo generatore elettrico che farà da base alle installazioni successive. Iniziò poi il lavoro per le opere idrauliche e pittoriche per cui i detenuti non mancavano di attività da svolgere ogni giorno. Al di là dei primi lavori per rendere vivibile il carcere, i detenuti furono in generale incoraggiati a svolgere diversi mestieri riscoprendosi ciabattini, elettricisti, pittori, falegnami e..baby sitter. A un ergastolano di nome Pasquale infatti, Perucatti affidò il suo stesso figlio di cinque anni, Antonio, cosa inconcepibile per l’Italia del tempo. Fu quindi creato un campo di calcetto e installata una sala cinematografica di cui anche la vicina isola maggiore Ventotene era sprovvista. Ai detenuti fu permesso di verniciare la loro cella con i colori che volevano per renderla più accogliente e anche di comprare dei generi alimentari dall’unico negozio sull’isola in modo da poter variare l’alimentazione base che spettava loro. Una struttura esterna al carcere fu destinata all’incontro con le famiglie dei detenuti ai quali fu permesso una volta all’anno di poter passare 24 ore con i propri cari all’esterno del carcere. Persone celebri, come il radiocronista Nicolò Carosio o diversi cantanti napoletani, fecero visita al carcere. Santo Stefano, che incarnava un modo di fare carcere destinato a rivoluzionare le regole e i dogmi fino ad allora in auge nella società italiana, iniziò quindi ad avere una certa visibilità. Tutto questo portò ad un irrigidimento del governo Tambroni. Ecco che nell’inverno 1960 mentre il direttore si trovava a pernottare a Ventotene si verificò l’inspiegabile scomparsa di due detenuti. Fuggiti? Fucilati? Non si sa. E’ comunque la scusa ufficiale per rimuovere il Perucatti e mettere fine una volta per tutte a quello che dai giornali perbenisti del tempo era stato definito: Il dolce ergastolo. Il carcere dopo essere passato a un regime duro chiuse definitivamente nel 1965. Oggi, abbandonato all’incuria è in fase di crollo. I lavori di rafforzamento in cemento armato che premono sulla struttura delle arcate superiori stanno infatti portando alla distruzione della struttura settecentesca. E’ forse il ritratto del sistema carcerario odierno in fase di crollo? L’ex sindaco di Ventotene da cui dipende anche l’isola di Santo Stefano, Beniamino Verde morto nel luglio del ’99 in un incidente stradale, tra l’altro in condizioni non chiare, aveva preparato un progetto per il recupero e la valorizzazione del carcere di Santo Stefano e aveva trovato il modo di reperire fondi dalla Comunità Europea. Che fine ha fatto questo progetto? Forse la riforma di Santo Stefano continua ad essere una bella parentesi, ma che è meglio dimenticare?. Se invece di dimenticare invece, ripartissimo proprio dalla valorizzazione del carcere, si creerebbe forse il luogo e l’occasione per sollevare e sensibilizzare la popolazione ad alcuni problemi del sistema carcerario italiano che sono lontani dall’essere risolti.
Francesca Romano
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