Perché il direttore Perucatti fu ispirato nella sua riforma proprio a Santo Stefano? Perché forse fu il primo carcere nato come carcere? Perché ospitò detenuti illustri come il Bresci o il Settembrini? Il celebre direttore del carcere di Santo Stefano nella sua pubblicazione “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata” cita più volte il Settembrini, forse per dar valore a quello scritto o a quel luogo, forse per far sentire di più la sua voce. Non è tuttavia frutto di una suggestione quello che venne fuori dalla penna del Perucatti nel 1956. Alla base della riforma carceraria di Santo Stefano, c’erano delle riflessioni maturate nel corso di una vita. Il Perucatti sentiva il dovere di rieducare quella parte della società che era marcita a causa dell’assenza delle istituzioni o per la mancanza della fiducia in esse. Anche laddove la responsabilità dei delitti non poteva legarsi direttamente al contesto storico, sociale ma si trattasse di tragedie familiari, era cosciente che la durezza del carcere fine a se stessa non era un deterrente.
In effetti il direttore si chiedeva retoricamente se gli uxoricidi, i parricidi, i pluriomicidi, pensavano forse alla pena che li aspettava mentre compivano i delitti, arrivando alla conclusione che non esiste una ragione che possa fermare chi vive come una tragedia la propria vita familiare o sociale. Anche quando il delitto dipendesse poi principalmente da una cosciente ed errata scelta personale i detenuti, nella sua percezione cattolica, erano pur sempre da considerarsi persone destinatarie dell’invito alla salvezza e alla redenzione. L’ottica della redenzione superava quindi di gran lunga quella del castigo e della vendetta. Ciò non significava che non dovesse esserci un castigo ma che questo doveva veicolare un messaggio e non rimanere fine a sé stesso così come la cessazione del castigo o della pena non doveva avvenire per sterile e pericolosa pietà ma avere, ancora una volta, uno scopo educativo. La riflessione di Perucatti andava anche oltre. Egli fu forse tra i primi a denunciare gli eccessi del positivismo e dell’antropologia criminale in un mondo dove i malati di mente e i delinquenti erano considerati pressappoco la stessa cosa, invocando, invece, una maggior precisione nell’individuazione dei casi clinici da separarsi e trattare diversamente. Affrontava poi un argomento molto scottante nel secondo dopo guerra, ovvero il fatto che molti ergastolani erano lì ingiustamente dal punto di vista giuridico, per cui secondo i suoi calcoli addirittura un terzo dei reclusi avrebbe potuto anzi, avrebbe dovuto, esser messo fuori dalle carceri. Alcuni, una percentuale bassa, ma alla quale occorreva dar voce, erano innocenti perché condannati tramite processi assolutamente indiziari o perché condannati in seguito alle situazioni generate dallo stato psichico della guerra, della disfatta, della frattura nazionale. Molti erano i condannati politici, gli ex repubblichini, tra cui il Lucidi, passato alla storia come il mago delle fughe, ma che fuggirà da Santo Stefano solo dopo la rimozione del Perucatti per evitare, come aveva riferito di persona al direttore, d’infrangere il sogno della riforma carceraria di cui giovavano anche i suoi compagni di pena. Molti erano infine i poveri che non avevano potuto pagarsi un buon avvocato. Da Santo Stefano Perucatti che aveva anche un passato da avvocato e procuratore, prese in mano i fascicoli degli ergastolani e riuscì a liberare chi era stato messo dentro ingiustamente dalla frettolosa giustizia dell’Italia post bellica o condannato a una pena superiore al dovuto. In quell’occasione a Santo Stefano arrivò anche una statua della Madonna benedetta da Pio XII in persona e portata in processione sull’isola dagli stessi ergastolani con una compiutezza e una devozione che commossero lo stesso direttore. Per attenuare la pena dell’ergastolo egli si appellava poi all’articolo 27 comma 3 della costituzione che afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, comma ignorato dal sistema penitenziario italiano. Il figlio del Perucatti, Antonio, autore del libro “Quel criminale di mio padre, storie di umana redenzione”, dedicato alla figura di quest’uomo esemplare, affermò che paradossalmente il padre, per difendere questo principio della costituzione fu spesso costretto ad infrangere le leggi.
Francesca Romano
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