L’ultima volta che il colera toccò Napoli era il 28 agosto 1973. Il solito baccano mediatico montò su un’invettiva ai danni dell’immagine della città partenopea, invettiva che si colorò per certi versi di politica contro il partito della Democrazia Cristiana che governava al tempo l’ex capitale del Regno borbonico. Lo stesso Paolo Mieli, ebbe ad affermare che la criminalizzazione della città era sproporzionata rispetto a quanto si era verificato. Anche lui rimarcava che dal 1861, da quando cioè Napoli aveva smesso di essere la capitale del Regno dei Borbone, era divenuta vittima di pregiudizio per cui ogni disservizio o sciagura di cui era protagonista diveniva oggetto di un grande attacco mediatico. Inutile dire che molto probabilmente fu il colera del ’73 ad ispirare provvidenzialmente i fratelli italiani che si trovano a tifare contro il Napoli e che oltre al sagace appellativo di terremotati e puzzoni possono sfoggiare anche l’arguto: colerosi. In realtà il colera del ’73, proveniente da partite di cozze tunisine e algerine, toccò anche Bari e Barcellona, ma se a Napoli la malattia fu debellata nel giro di un mese, nella città catalana vi rimase ben due anni. Eppure Napoli, prima della spazzatura si associava automaticamente al colera. Sarà che le misure attuate per debellarlo furono mastodontiche: un milione di napoletani vaccinati in massa, la più grande vaccinazione dal secondo dopoguerra. A ricordare i tempi del dopoguerra fu persino la presenza degli americani con le loro siringhe con impugnatura a pistola per velocizzare il lavoro. Le piazze erano invase da file di civili che aspettavano il proprio turno con quella che più di qualcuno definì una compostezza tutta  inglese a dimostrazione del fatto che il multiforme popolo napoletano davanti alle cose serie sa spogliarsi benissimo dell’abito di Pulcinella. Un altro acuto osservatore, circa centoquarant’ anni prima, aveva riscontrato la stessa cosa. Parliamo di Giovanni Emmanuele Bidera, artista palermitano di nobile famiglia, trasferitosi a Napoli o meglio, al San Carlo, dove lavorava come traduttore, insegnate di dizione e librettista scrivendo più di qualche romanza o canzone per il Donizetti e che nel 1830 aveva fondato a Napoli la prima scuola pubblica di dizione. Quest’uomo insigne, fu autore, tra l’altro, del Romanzo: Gli ultimi novanta giorni del 1836 a Napoli ovvero Il colera a Napoli.  Qui, dipingendo con tratti di sorprendente realismo il quadro della città in preda al colera, ci parla di una via Toledo deserta, di una strada del Porto vuota e silenziosa, attraversata solo da poche persone per le quali non tralascia di sottolineare che “Quella giocondità di fisionomia, quel vivo gesticolare, quel sonoro e rissoso parlare, quei motti arguti, il borbottare dei vecchi, la balordia dei giovani, il cicalio delle donne, tutte le caratteristiche infine dei nostri popolani sono sparite, ed attoniti come Baldassarre all’apparizione dei tremendi caratteri, sono compresi da un pensiero solo: il Colera!” . Ma facciamo un passo indietro. Come arrivò il colera a Napoli?.
NAPOLI, L’ITALIA E IL COLERA (II PARTE)
Guerra, epidemia, carestia. Questo è il circolo vizioso che s’innescava abitualmente e con estrema facilità negli stati d’antico regime. Stessa storia per quanto riguarda il colera nell’Italia pre- unitaria. La prima ondata oltrepassò le Alpi nel 1835. La guerra c’era stata, non in Italia ma in Persia, parliamo del terzo grande conflitto tra l’esercito russo e i persiani che nel 1826, su consiglio degli inglesi in competizione con la Russia, avevano invaso con un esercito di 35 000 uomini e senza dichiarazione di guerra, i territori del Causaso. La guerra si era conclusa nel 1828 a favore della Russia ma i soldati dello zar avevano contratto il colera. Dalla Russia in breve l’epidemia arrivò in Polonia. Nel settembre 1831 la malattia mieteva vittime in Ungheria, Germania ed Austria. A novembre approdò in Inghilterra, da Londra si diffuse a Parigi nel 1832, poi nelle Americhe nel 1833 e dalle Americhe arrivò in Spagna nel 1834- 1835 quando ritornò ad infierire in maniera turbolenta nella Francia meridionale, in particolare a Tolone. A questo punto gli stati confinanti, tra cui lo stato Sabaudo, misero su dei cordoni sanitari per tentare di restare immuni dal contagio. Invano. Nell’agosto 1835 il colera arrivò nel Regno dei Savoia e da qui si propagò nel resto d’Italia. Dopo Nizza, Genova, Cuneo, Torino, Saluzzo, Racconigi, fu contagiato il porto di Livorno e da Livorno il morbo infettò Firenze e dintorni. Ad ottobre fu la volta di Venezia, Padova, Vicenza, Treviso, Verona. Con il freddo la malattia si arrestò, ma per poco: nella primavera dell’anno successivo la marcia riprese verso sud. Papa Gregorio XVI mise su un “corpo di guardia sanitario”, ma i blocchi funzionarono poco: l’Emilia e le Marche caddero in ginocchio a causa del flagello. Per il momento nel Regno delle Due Sicilie ancora non c’era traccia del morbo. Intanto il 16 gennaio 1836 era nato l’erede al trono Francesco II e alla fine di gennaio la madre Maria Cristina di Savoia, moglie di Re Ferdinando II, moriva. Nell’aprile dello stesso anno un terribile terremoto sconvolse la provincia di Cosenza. In questo contesto, agli inizi di  ottobre del 1836 apparvero i primi casi di colera anche a Napoli. Da Napoli il morbo si spostò in Puglia e da qui nel resto del Regno compresa la Calabria già colpita dal sisma e la Lucania vittima di un nuovo terremoto nel mese di novembre. Sicilia e Sardegna non furono immuni dal colera che aveva conquistato così tutt’Italia. Con l’inverno la situazione sembrava essere migliorata, ma nell’aprile del 1837 nuovamente il morbo imperversò su tutta la penisola. Le vicissitudini del colera in quegli anni si legarono inevitabilmente ai tormentosi eventi politici. Siamo infatti nel periodo dei moti carbonari per cui, nel clima di disordine e panico generale i rivoluzionari in più di qualche occasione ribaltarono o tentarono di ribaltare le autorità dello stato preposte all’ordine, tentando di sobillare il popolo contro i legittimi governi, instillando dubbi sul fatto che fossero proprio i governi ad ingaggiare degli untori o degli stregoni contro la popolazione stessa. Questo non accadde di certo a Napoli, dove re Ferdinando II, il 27 ottobre 1836 prese a passeggiare tra i vicoli più colerosi della città, tra le benedizioni e la commozione dei napoletani, mostrando apertamente di voler legare la sua sorte a quella del suo popolo. A Viterbo, nello stato Pontificio o a Palermo invece, gli eserciti si videro costretti ad intervenire con la forza incarcerando, punendo e facendo talvolta venire allo scoperto cellule rivoluzionarie, fino ad allora silenziose, della “Giovine Italia” o di altri gruppi carbonai.
Con il 1837 si chiuse solo il primo capitolo della malattia. Un’altra guerra, la guerra di Crimea, innescò poco meno di un ventennio dopo, una nuova ondata pandemica. Dei 18.000 soldati piemontesi inviati dal Cavour al fianco di Napoleone III per combattere contro la Russia in Crimea, poche decine morirono infatti in scontri bellici e ben 2000 furono atterrati del colera contratto in quelle zone. Rientrati in patria, i soldati piemontesi superstiti riportarono il morbo in Piemonte e da quì nel resto d’ Italia. La terza grave ondata di colera si sviluppò in Italia in seguito alla terza guerra d’indipendenza contro l’Austria. Era il 1866, l’esercito italiano decimato dal colera, si ritrovava nello stesso tempo a far fronte alle strenua resistenza delle popolazioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, a provvedere all’annessione delle province venete, all’organizzazione dei plebisciti e a completare la definizione dei trattati di pace.  Con il 1867 terminò una volta per tutte la stagione del colera in Italia in epoca moderna. Pochi anni dopo, nel 1884 fu isolato il vibrione responsabile del morbo e quindi si elaborò la cura e la vaccinazione, per cui fu facile da quel momento in poi circoscrivere la malattia.
Il colera fu quindi una delle principali pandemie che imperversarono in Europa al seguito delle guerre, in particolare delle guerre extra europee. Una volta approdato a Napoli, la tragica atmosfera e il tragico contesto della pandemia, nella capitale del Regno delle Due Sicilie ha saputo dare alla luce opere letterarie di alto valore poetico. Questo non fa altro che confermare il clima di grande fermento culturale che si respirava nella Napoli capitale. Un’opera, la più conosciuta, è quella che fu poi definita come il testamento spirituale di Leopardi, morto anch’egli di colera, composta sulle pendici del Vesuvio: la Ginestra. L’altra, meno conosciuta ma più direttamente riconducibile al morbo è la già citata opera sul colera a Napoli del Bidera che, come i dieci ragazzi del Decamerone, decise di scrivere per occupare il tempo, più precisamente “per passare le ore fantastiche di noja e di timore” mentre fuori imperversava il morbo. Certo, al contrario del Decamerone, il Bidera fa del colera il soggetto dei suoi racconti dei quali è protagonista, assieme alla città di Napoli con storie più o meno realistiche, quasi per esorcizzarne la paura. Dal sapore prettamente parteonopeo è poi la finzione letteraria del dialogo con le ombre dei colerosi “che gl’impongono di scrivere di loro” sebbene tutto questo possa far spaventare il lettore. A quanto pare quindi, checché ne dicano i denigratori motti dei tifosi, una cosa è certa: i primi colerosi d’Italia non furono napoletani ma piemontesi. Anche quando il morbo approdò sui lidi di Partenope poi, se ne seppe trarre sempre una qualche forma d’arte.
dall’inviato Francesca Romano