“Me lo aspettavo”. Queste le ultime parole pronunciate con un sorriso da don Pino Puglisi prima di morire nel suo quartiere, Brancaccio, nella sua città, Palermo, a causa dei colpi di pistola alla nuca inferti il giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno la sera del 15 settembre del 1993. Il modo in cui morì il sacerdote toccò profondamente il cuore del suo stesso carnefice, Salvatore Grigoli che, quando fu arrestato nel ’99, confessò l’assassinio di altre decine di vittime, morte per mano dello stesso mandante: la mafia. Ma chi era Puglisi? Tanto è stato detto, ma non sembra mai essere abbastanza per descrivere la grandezza di quest’uomo. Nello stesso tempo basterebbe, forse, dire che era un uomo che aveva fatto dal Vangelo la sua ragione di vita. Semplice, modesto, dolce e nello stesso tempo deciso, sapeva imporsi quando era necessario, sapeva alzare la voce. Instancabile nello studio, particolare cura dedicò al Concilio Vaticano II di cui recepì in pieno il messaggio, ma anche alla teologia, alla filosofia, alla pedagogia. Più amate dalla gente umile e non solo, erano forse le doti che lo predisponevano all’ascolto del prossimo. Don Puglisi, si rivolgeva soprattutto ai bambini, ai ragazzi, ai giovani con i quali stava sempre a contatto essendo oltre che sacerdote, insegnante di matematica e di religione e figura educativa di riferimento per diverse associazioni laicali giovanili. Facendo leva sulla sua grande capacità comunicativa, intendeva fare breccia nel cuore delle nuove generazioni per educarle al valore dello studio e del lavoro, in una terra in cui la sub cultura mafiosa cercava di isolare i giovani per farne strumento della criminalità organizzata. I risultati di questa sua incessante sete di pace e di giustizia si videro già nel paesino di Godrano, dove operò dal ’70 al ‘78 e dove riuscì tramite una sincera opera di evangelizzazione a far riappacificare le famiglie in guerra tra loro e a sostituire l’ottica mafiosa con quella evangelica, facendo riscoprire ai fedeli valori come il perdono presentato non come un atto di debolezza, ma come base imprescindibile da cui partire per ricostruire le proprie vite. Da Godrano don Puglisi fu spostato nel quartiere Brancaccio, il suo quartiere natale abbandonato a sé stesso dalle autorità civili e preda di rassegnazione e degrado morale. Qui la sua opera, volta a strappare i giovani alla malavita organizzata tramite diverse iniziative tra cui la costruzione del centro ricreativo “Padre Nostro”, decretò la sua condanna a morte forse più delle accuse rivolte ai mafiosi del posto che conosceva per nome e cognome e che per lui erano “meno che uomini degradati al rango di animali”. Il senso delle sue parole e della sua azione contro la mafia era in piena sintonia con la scomunica che Giovanni Paolo II lanciò il 9 maggio del 1993 da Agrigento, ad un anno dagli attentati a Falcone e Borsellino. Proprio in onore di questi due magistrati siciliani, don Puglisi, pochi mesi prima di morire, osò organizzare per la prima volta e non senza minacce e intimidazioni rivolte sia a lui sia ai suoi collaboratori, due processioni anti – mafia, la prima in ricordo di Falcone nel maggio del ‘93, processione alla quale parteciparono pochi impauriti fedeli e la seconda, in ricordo di Borsellino organizzata nel mese di luglio dello stesso anno, alla quale partecipò anche la moglie del magistrato. A chi gli chiedesse se avesse paura o no della mafia egli rispondeva semplicemente: “Che possono farmi? Al massimo mi ammazzano”. Mai denunciò gli atti intimidatori di cui era vittima per non alimentare paura e terrore che condizionano la libertà delle persone più dell’atto mafioso in sé. La frase di san Paolo “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” (Rm, 8, 31) che spesso citava nelle sue omelie, sembrava dargli la forza necessaria per continuare la sua missione. Non c’era più nessun dubbio, quest’uomo dava fastidio, doveva morire. Inizialmente si pensava di ucciderlo davanti alla chiesa, come monito per la stessa istituzione ecclesiale che osava alzare la voce contro la mafia su diversi fronti. Solo all’ultimo momento ci si trovò nelle condizioni giuste per assassinarlo davanti al portone di casa mentre rientrava dopo una giornata d’intenso lavoro in cui aveva celebrato anche due matrimoni.
A 19 anni di distanza, lo scorso 28 giugno è stata finalmente istituita la congregazione per la causa di beatificazione di diversi servi di Dio tra cui don Puglisi le cui pratiche per il riconoscimento del martirio iniziarono già cinque anni dopo la sua morte. Tra tutti i nomi, come ricorda l’arcivescovo di Palermo Romeo, il nome del parrino siciliano è quello che ha fatto più notizia forse perché si conosceva di più.  “La mafia non perdona, il Vangelo è perdono, la mafia non condivide, il Vangelo si, la mafia uccide…”. Con queste parole l’arcivescovo di Palermo Romeo ha annunciato alla conferenza stampa del 28 giugno scorso, l’apertura della causa di beatificazione di don Puglisi. L’arcivescovo ci ha tenuto a sottolineare che mentre Giovanni Paolo II tendeva a svolgere tutte le cerimonie di beatificazione in piazza san Pietro, papa Benedetto XVI, preferisce celebrarle nelle diocesi di origine dei servi di Dio. In questo modo la celebrazione sarà partecipata soprattutto dai concittadini del beato, dai suoi compaesani, dalla diocesi tutta che in primo piano si sentirà quindi chiamata a seguirne l’esempio.
Prima di Puglisi,  nel settembre dello scorso anno, per un altro figlio della terra siciliana, Rosario Livatino, il giudice ragazzino impegnato nella lotta contro la mafia, è stato aperto il processo di beatificazione. Tanti altri sono i martiri della fede cristiana che hanno bagnato con il loro sangue la terra meridionale nella lotta alla criminalità organizzata. Tra questi si attende l’apertura del processo di beatificazione anche di un altro sacerdote, don Giuseppe Diana, il sacerdote di casal di Principe ucciso il 19 marzo del 1994 nella sua parrocchia.
Francesca Romano