In questi giorni chi conosce e ama la nostra storia non può non rivolgere un pensiero a tre date e a tre luoghi: Pietrarsa (6 agosto 1863), Marcinelle (8 agosto 1956). Pontelandolfo (14 agosto 1861). Un percorso simbolico del cammino che i Popoli del Regno delle Due Sicilie furono costretti a vivere all’indomani dell’unificazione italiana: da operai a “briganti, da “briganti” a emigranti… Nel più grande stabilimento metalmeccanico italiano, situato tra Portici e Napoli (1050 operai nel 1860, 480 quelli dell’Ansaldo di Genova e la Fiat non era ancora nata), cuore della moderna industrializzazione voluta da Ferdinando II, la mattina del 6 agosto del 1863 furono assaliti dalle baionette dell’esercito gli operai che protestavano per la chiusura progressiva della loro fabbrica: Olivieri Aniello, Del Grosso Domenico, Fabbricini Luigi, Marino Aniello rimasero uccisi (come raccontano i documenti dell’Ospedale dei Pellegrini del tempo), “per ferite e palle di baionetta alle spalle”.  

Come abbiamo detto e scritto più volte da circa 20 anni, quei “sediziosi artefici di Pietrarsa” (così li definiscono i documenti della Polizia) furono i primi (sconosciuti) martiri della storia operaia almeno italiana.  Negli stessi giorni, ma un paio di anni prima, il massacro delle popolazioni di Pontelandolfo e di Casalduni: due paesi decimati e distrutti per una rappresaglia lontana da qualsiasi idea di civiltà: solo dopo 150 anni qualcuno ricorderà “ufficialmente” quei morti “briganti”: ne prendiamo atto positivamente ma c’è il fondato rischio di considerare quella strage come un episodico “orrore/errore della guerra” dimenticando che i massacri furono la costante di tutto il processo di unificazione costato centinaia di migliaia di vittime nel Sud dell’Italia. E’ di qualche ora fa, invece, la celebrazione di un altro episodio più recente ma altrettanto tragico: la strage delle miniere di Marcinelle in Belgio. Le più alte cariche dello Stato si sono distinte per il ricordo della morte di quei 136 minatori “italiani”: alcuni hanno richiamato i valori della “tolleranza e dell’accoglienza”, altri quelli della “sicurezza sui luoghi di lavoro” ma nessuno ha ricordato che anche in quel caso si trattò di una tragedia soprattutto meridionale: meridionale (soprattutto abruzzesi, calabresi e pugliesi) erano quei lavoratori come soprattutto meridionale era stata la pagina sempre più dimenticata dell’emigrazione post-unitaria. Nessuna parola sulla complicità dei governi del tempo nel mandare di fatto al massacro la nostra gente per patti commerciali che diversi storici hanno considerato “scellerati”. Carne da macello, la nostra gente, nel cortile della loro fabbrica, quella dei primati dimenticati per sempre, carne da macello tra le fiamme delle loro povere case, carne da macello nel buio senza uscita di una miniera lontana o nel silenzio dei politici e degli intellettuali di oggi. E se leggiamo i dati attuali dell’emigrazione soprattutto giovanile dalle nostre parti, con la consueta e secolare incapacità delle nostre classi dirigenti nel proporre o nel ritrovare soluzioni diverse da navi, treni o aerei, ci rendiamo conto dei motivi per cui le nostre “battaglie” sono così attuali e aprono ferite tutt’altro che rimarginate. G.D.C.