Per Nicola Zitara l’Italia è una “non nazione” nata da una guerra di conquista. In libreria “L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria”.
Uno dei contributi più seri, meno demagogici, alle celebrazioni dell’Unità d’Italia è forse la pubblicazione dell’ultimo, monumentale lavoro di quel grande, ma purtroppo misconosciuto, meridionalista anti-unitario che fu Nicola Zitara. Il libro («L’invenzione del Mezzogiorno. Una storia finanziaria») è un volumone di circa cinquecento pagine pieno di documenti e tabelle. Zitara (che si è spento nell’ottobre scorso, a 83 anni, nella natia Siderno, in provincia di Reggio Calabria) ne aveva rivisto le bozze proprio pochi giorni prima di morire. Presso lo stesso editore, fra il 1971 e il 1972, aveva già pubblicato due saggi fondamentali – «L’unità d’Italia: nascita di una colonia» e «Il proletariato esterno» – nei quali aveva gettato le basi della sua analisi degli effetti perniciosi che l’impresa risorgimentale ebbe a suo avviso sul nostro Mezzogiorno. Ma la sua opera capitale è proprio questo suo ponderoso libro postumo. Quale insolito, eccentrico tipo di «meridionalista» fu Zitara! Dopo aver militato a lungo, dalla prima giovinezza fino alla maturità, nel partito socialista, diventò pian piano uno dei principali esponenti di quella singolare famiglia di intellettuali che oggi ritiene che soltanto la rinascita di uno Stato meridionale indipendente, corrispondente geograficamente al Regno delle Due Sicilie, potrà assicurare la risoluzione dei problemi del Sud. Questa conclusione, ovviamente, non poteva non portarlo ad avvicinarsi al movimento neo-borbonico. Ma a spingerlo in questa direzione contribuì non poco, paradossalmente, la sua fedeltà ad alcuni aspetti del marxismo.
Di Marx egli infatti accettò fino all’ultimo l’analisi del processo della famosa «accumulazione primitiva» del capitalismo, in cui volle vedere la chiave per analizzare le cause dello sviluppo contraddittorio del capitalismo italiano nel corso del nostro Ottocento pre- e post-unitario. Riassumere il suo pensiero sull’argomento non è certo semplice. Ma negli innumerevoli scritti (saggi, articoli, discorsi, lettere) in cui espose per anni le conclusioni politiche delle sue analisi storiche, non cessò mai di sostenere che un elemento fondamentale del programma di Cavour fu l’intento, consapevole e deliberato, di liquidare il Sud economicamente e asservirlo culturalmente al Nord. Concepito e messo in opera da lui stesso, il progetto fu portato a una prima conclusione dalla Destra Storica, proseguito poi da Depretis, Cairoli, Crispi e Giolitti, quindi ancora da Mussolini, De Gasperi ed Einaudi. Ammetteva che forse Fanfani e Nenni avrebbero voluto cambiare rotta, ma la Confindustria e i sindacati – avallati dal Pci, La Malfa e De Martino – li bloccarono. Ne consegue – diceva inoltre – che siamo ancora una non-nazione. Il Sud, da quando il Nord lo ha conquistato, è stato squalificato sia nell’immagine che nella capacità produttiva. I padani, per svilupparsi, volevano un popolo di iloti, e lo hanno avuto. Hanno regalato ai ricchi le terre della Chiesa e il Demanio pubblico, hanno prezzolato i politicanti, hanno scatenato il clientelismo, hanno inaugurato il notabilato, hanno escogitato l’assistenzialismo, hanno governato simultaneamente coi carabinieri e con la mafia. E coi partiti e i sindacati nazionali hanno falsificato lo scontro politico Il Meridione – spiegava ancora – è oggi un paese che si identifica solo per negazione. I meridionali sono italiani negati dalla stessa Italia.
L’obiettivo, tuttavia, non è – concludeva – la rivalutazione dei Borbone. Il problema è un altro: far sapere finalmente a tutti, e in primo luogo agli stessi meridionali, sui frutti di quali saccheggi e razzie piemontesi e nordiste è stata edificata l’Italia. Su quali costi vivi, a carico del popolo meridionale, essa va avanti prosperosamente. A spese di chi si europeizza e si eurizza.
di Ruggero Guarini
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