Dopo non poche difficoltà, arrivo in quella che era la terra preferita dai re del nostro passato attraversando Via Grotta, unico accesso ancora aperto per Terzigno. Controlli e filtri da stato di assedio, più noiosi che efficaci, mi fanno arrivare nei dintorni del paese ormai a notte fonda e nel pieno di una spaventosa guerriglia urbana.
Mi accoglie un fumo denso che prende alla gola ed agli occhi. Un fumo nero da affanno che, a secondo del vento e della temperatura, si miscela con l’odore acre dei lacrimogeni sparati senza parsimonia da centinaia di poliziotti al limite del crollo nervoso. A tratti quell’aria soffocante lascia il posto ad un puzzo nauseabondo proveniente dalle discariche e dagli automezzi bloccati lungo le strade. Un fetore immondo che ormai è penetrato dappertutto, impregnando anche l’animo di questa povera gente.
Durante la notte gli abitanti si compattano bivaccando pacificamente nella “Rotonda” della via panoramica, mentre tutto intorno, passata la mezzanotte, spente misteriosamente le luci stradali, prendono anima i ribelli dell’Intilifada della monnezza. Sono organizzati in squadre velocissime ed insidiose. Si nascondono nei cumuli di immondizia, tra gli scheletri degli automezzi incendiati, tra le costruzioni abusive abbandonate, dietro i muretti, nei canali e nelle stradine rese buie anche a colpi di pietra nei lampioni, per poi uscire improvvisamente ed avventarsi su macchine, autocarri e polizia. Cosa incredibile, sono tutti giovanissimi. Non più di 20 anni i più grandi, meno di 14 i più piccoli. Sono tutti muniti di motorini incredibilmente silenziosi: targhe coperte o contraffatte, luci rigorosamente spente, zaini colmi di taglientissime pietre vulcaniche, razzi natalizi e nautici, petardi, chiodi, punteruoli, biglie, pezzi di piombo, grossi bulloni. Hanno tutti il volto coperto dai caschi, dalle kefie e dalle sciarpe del Napoli. Molti hanno gli occhi coperti da occhiali da neve. Ogni squadra è composta da più equipaggi ed ogni equipaggio ha i compiti ben definiti: uno guida e l’altro colpisce. Tirano di tutto su tutto ciò che di estraneo si muove nelle strade.
Mi muovo in mezzo ad esplosioni, incendi, fumo, grida, cariche e contro cariche, bestemmie, preghiere. Non è guerriglia, è guerra. Sono inorridito.
Improvvisamente intravedo i ragazzi nell’ombra, li inseguo e mi accosto ad alcuni di loro in una traversa. Chiamo ad alta voce un nome inventato, si spaventano e sono immediatamente circondato: saranno stati una trentina, forse quaranta comprese “le vedette”. Sono tutti armati di pietre e spranghe. Capisco che sto nelle loro mani ed ogni mio gesto o parola possono essere fatali se non per me, ma per la mia macchina. Mentre uno mi parla sussurrando dalla kefia: “Che Vuò?”, gli altri osservano da lontano infilando le mani nei loro micidiali zaini. Uno prepara nella strada “la mitraglia”, una di quelle infernali scatole cariche di decine di razzi luminosi esplodenti a ripetizione che viene piazzata impropriamente in orizzontale e nella mia direzione. “E’ un capo sbirro, diamogli fuoco !” grida il più giovane, forse 12 anni, che dall’alto di un mucchio di terra appare come il più nervoso. Ma fortunatamente nessuno gli da ragione. Carpisco che sono incuriositi ed in qualche modo interdetti dal mio atteggiamento di dialogo. Ma comunque sono tutti molto diffidenti, innervositi perché parlamentare con uno sconosciuto significa violare quelle consegne non scritte che gli stanno garantendo l’impunità da 8 giorni. “Vattenne che è meglio per te!” mi grida sfacciatamente una voce di ragazza nascosta tra casco e sciarpa. Cerco di aprire un dialogo, ma inutilmente. “Scendi” mi dice sicuro quello che appare il capo del drappello e mi apre la portiera. Forse è la fine per la mia stanca macchina e quasi mi rassegno ad una sua sorte ingloriosa. Esco deciso richiudendo la portiera dietro di me. Ribadisco che voglio solo parlare con loro, capire meglio e, soprattutto, rendermi conto della vera natura di quella rivolta. Ma il mio dialetto napoletano diverso dall’accento della zona li ha insospettiti ancora di più. “Copritevi, non fatevi vedere la faccia”, ripete continuamente il più ”anziano”. Raccolte le mie cose dal cofano, sono restato a guardare quel nugolo di ragazzi e bambini silenziosi e minacciosi, per metà a piedi e per l’altra metà a cavallo dei loro motorini rimasti tutti in moto.
Nell’abbassare lo sportello posteriore il miracolo. Era spiccato nel buio per un attimo, illuminato dalla scarsa luce di un lampione lontano, l’autoadesivo dello stemma Borbonico. “Sei del Napoli?”, mi chiede il giovane capo con la voce ingentilita, indicandomi lo stemma Dinastico. “Si, ma questo è anche il simbolo della mia vera Patria che è poi anche la vostra, ma voi non lo sapete”. Sento un mormorio, un passa parola, la tensione cala, finché si fa avanti un bel ragazzo moro, si abbassa la kefia e mi domanda: ”Come vi chiamate?”. Nemmeno finisco di pronunciare il mio nome che una voce dalle mie spalle grida “ ’O capitano!”, “ Chisto è ‘o Capitano ! ’”.
Potenza di Facebook. E continua, rivolgendosi a tutti: “E’ nu sbirro d’’e Borbone”. Una risata liberatoria cambia la scena: quelle kefie e quelle sciarpe scendono dalla bocca al collo. “Capità ca che ce facite, se arriva la polizia noi scappiamo e voi state nei guai. Seguiteci”. Raggiungiamo la campagna aperta, dove la puzza è davvero stomachevole. “Capità qua non è cosa buona, questi ci vogliono ammazzare tutti. Lo Stato si è messo d’accordo con la camorra e noi adesso abbiamo contro pure i delinquenti”.
Immaginavo che la situazione fosse complessa, ma non in questi termini. Se queste sono le convinzioni della gente di Terzigno che speranza di mediazione possono avere le Istituzioni?
“Ragazzi ma perché le pietre contro la polizia? Perché la violenza? Perchè il fuoco? La violenza porta altra violenza….”. Non riesco a terminare il concetto che vengo interrotto dal capo: “Capità qua o si fa così o la monnezza ci soffoca. E’ una legittima difesa, e quando uno si difende la vita usa ogni mezzo. E poi noi rispondiamo a chi ci fa male, a chi ci carica come se fossimo dei delinquenti. Noi qua stiamo a casa nostra, devono andare via loro con tutta la loro monnezza velenosa”.
“Capità noi colpiamo i camion, gli buchiamo le gomme e gli diamo fuoco. Facciamo tutto per non farli passare. La polizia sta in mezzo e gli arrivano i sassi: è quasi un caso”.
“Capità qua i vecchi come voi hanno fallito, mio padre che non mangia carne perché è pacifista, lo hanno ammazzato di manganellate in testa perché non si muoveva dalla strada. Sta a casa da due giorni con la fronte tra le mani e non ci vede più da un occhio. Io se le prendo le restituisco non sono un fesso come lui”.
Riprende il discorso il capo: “Capità, nuie tenimme ragione e questo sappiamo fare per farla valere. Vuie site na brava persona, iatevenne! Cà non é posto pe vuie. Pè mò, cà nun putite fa niente”. “Grazie assaie che site venute, mo, però, turnatavenne a casa vosta”.
Parlo con loro per molto tempo, non li vedo bene nei volti per il buio, ma percepisco che mi ascoltano con attenzione: “(…) Tirare sassi per vendetta contro chi è solo comandato non ha senso. Occorre punire chi comanda la politica e dà certe disposizioni. E per fare ciò occorre raggiungere e coinvolgere tutta la nostra Gente, perché al popolo non si comanda nemmeno con la forza. (…) Le vere rivoluzioni sono quelle culturali, quelle che prendono la testa ed il cuore della gente non che colpiscono l’incolumità dei poliziotti. Quando il popolo prende coscienza non ci sono lacrimogeni ed arresti che lo possano contenere.”
Non penso di averli convinti. Purtroppo.
Stringo molte mani, ne abbraccio un paio, faccio una scafetta sulla guancia abbondante del più giovane, qualcuno mi regge lo sportello mentre salgo in macchia e me lo richiude con garbo. Mi rivolgo a tutti implorante: “Nun ve facite male!”.
Metto in moto e sto per partire “Aspettate Capità! Aspettate…..’O cafè”.
Sono le 4 del mattino, fa freddo: dopo un caffè all’aroma di percolato, lascio al loro destino quegli autentici briganti con un nodo alla gola e tanta amarezza nel cuore…. Ma tornerò.
Alessandro Romano
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