Storia: il mito risorgimentale fallisce in libreria. Anche le librerie testimoniano il fallimento del mito risorgimentale. Ad un anno dal centocinquantesimo anniversario dell’unificazione italiana i libri sull’argomento sono i meno letti nell’ambito della saggistica storica e tra i meno letti in assoluto.
Lo conferma il rilevamento Nielsen Bookscan, considerato il sistema di rilevamento più avanzato del mercato librario. Eppure, l’argomento storia in Italia interessa i lettori. Per citare un dato, i libri sull’antica Roma costituiscono l’11,9% di tutti i libri venduti nel Paese tra 2007 e 2009. Il 7.3% del totale è costituito, nello stesso periodo, dai libri sul fascismo, il 3,8% dai libri sul Medioevo, un periodo oggetto di revisione e di rivisitazione storica. In questa classifica i libri venduti sul Risorgimento totalizzano appena l’1,3% %. Per avere un termine di paragone, i libri sull’Impero Ottomano e sull’Antico Estremo Oriente sono all’1% e si apprestano a superare nelle vendite il Risorgimento (cfr. Il Sole 24 Ore, 20.2.2010). A Napoli, solo qualche giorno fa le bancarelle dei librai di Port’Alba offrivano a 3 euro i grossi volumi delle opere di Mazzini e le antologie risorgimentali a cura di Giovanni Spadolini. Al contrario, la nuova saggistica borbonica, pur non disponendo di distribuzione, continua a conquistare lettori mentre classici come la Storia delle Due Sicilie di Giacinto de’ Sivo sono tra i più ricercati sul mercato antiquario.
“È davvero molto scarso l’interesse dei lettori verso il nostro Risorgimento”, riconosce uno storico certamente non anti-risorgimentale come Giordano Bruno Guerri (Il Giornale, 22.2.2010).
Consapevole della difficoltà di riproporre la retorica dell’unità italiana in vista dell’anniversario del 2011 lo stesso Guerri ha annunciato significativamente il titolo di un suo prossimo libro sul brigantaggio: “La prima guerra civile italiana 1861-1870” . (LN26/10)
 
ITALIA: SONDAGGIO, UNO SU QUATTRO SI VERGOGNA DI FARNE PARTE
Il senso di appartenenza all’Italia continua a diminuire. Lo certifica un sondaggio realizzato dall’Ispo (Istituto per gli studi sulla pubblica opinione) diretto da Renato Mannheimer per conto della Fondazione per la Cultura di Genova su un campione di 800 intervistati. Rispetto al 2004 il senso di appartenenza all’Italia passa dall’83% al 77%, mentre aumenta il senso di appartenenza al Comune (dal 77% all’81%) e, lievemente, all’Europa (dal 66 al 67%) [cfr. Roma, 5.3.2010]. Invitato ad indicare una sola dimensione territoriale solo il 46% degli intervistati ha indicato l’Italia, mentre il 26% ha indicato il Comune dove vive, l’8% la Regione, il 5% la Provincia, ed il 13% l’Europa. Al di là del senso di appartenenza in calo, soprattutto tra i giovani, è l’orgoglio di far parte dello Stato italiano a venire meno. Il 33% ha detto di sentirlo “come una cosa lontana che non lo riguarda” e fra questi ultimi il 25% ha aggiunto di “vergognarsi di farne parte”. Il 50% degli intervistati indica “i politici” tra i motivi di imbarazzo nell’appartenenza allo Stato italiano. (LN26/2010).
 
DUE SICILIE: A MESSINA, NEL RICORDO DELLA REAL CITTADELLA
L’eroica difesa della Real Cittadella di Messina (27 luglio 1860 – 13 marzo1861) assediata dalle truppe piemontesi comandate dal generale Cialdini sarà ricordata il 12 e 13 marzo con una serie di iniziative. Venerdì 12 marzo alle 18 nella Chiesa di S. Maria Alemanna si svolgerà un convegno con la partecipazione, tra gli altri dello storico Franz Riccobono, del prof. Saverio Ponz de Leon, presidente dell’Associazione “Generale Fergola”, di Salvatore Serio ed Enzo Gulì, del Movimento Neoborbonico, e di Bruno De Martino di Montegiordano, discendente del Brigadiere Generale Nicola De Martino di Montegiordano. Sabato 13 marzo alle 10.30 nella Chiesa di Santa Caterina una Messa di suffragio per i Caduti della Real Cittadella sarà celebrata da Mons. Mario Di Pietro, canonico del Capitolo della Basilica Cattedrale di Messina. Corone di fiori saranno deposte davanti ai monumento di Carlo di Borbone e di Ferdinando II. (LN26/2010) 
 
 
REAZIONE: BERNARD DUMONT, IN CHE COSA PUÒ SPERARE LA FRANCIA
Dalla Francia continuano ad arrivare segnali di reazione perfino sorprendenti per un Paese iper-secolarizzato, con livelli di pratica religiosa inferiori a quelli dell’Italia. Il 17 gennaio circa 25 mila persone, in gran parte giovani, hanno marciato nel centro di Parigi contro l’aborto e per il diritto alla vita (cfr. Agenzia ZENIT, 29.1.10). Il 3 gennaio a Thiberville, in Normandia, centinaia di fedeli hanno contestato il Vescovo progressista di Evreux, Christian Nourrichard, impedendogli di allontanare un parroco tradizionalista. Ed a questi episodi si aggiungono l’aumento delle Messe tridentine celebrate in tutto il Paese, il numero costante di vocazioni per i Seminari tradizionalisti, il successo crescente del Pellegrinaggio annuale a Chartres, divenuto un appuntamento internazionale. A fare da sfondo c’è una sinistra politica che appare ancora più in crisi che nel resto d’Europa. Di tutto questo Lettera Napoletana ha parlato con un qualificato osservatore della realtà francese, il prof. Bernard Dumont, fondatore e direttore della rivista Catholica (www.catholica.fr).
 
D. Come spiega questi ed altri segnali di reazione che si potrebbero elencare?
R. La crisi che viviamo non è specificamente francese, né si limita all’area della sinistra. Si tratta del punto d’arrivo del processo di svuotamento progressivo delle strutture di democrazia formale e del regime repubblicano di tipo “classico”, con la sua “liturgia”, il suo centralismo, il primato assoluto della legge votata dal parlamento, la partitocrazia, ecc. Di tutto questo resta ben poco. In altre parole, siamo davanti ad una specie di liquidazione nichilistica delle strutture politiche formali sulle quali la Francia (e altri paesi europei) è vissuta durante più di uno secolo. Ne risulta un ambiente caotico e la forte minaccia di andare verso un potere anonimo forte, sotto il velo della debolezza.
Se lo Stato si indebolisce, la cosiddetta “società civile” cresce, il che significa che le uniche forze che rimangono sono quelle della finanza, della speculazione e dei gruppi di pressione organici a queste nuove potenze, ed è questo nuovo sistema che produce il nichilismo.
Uno dei segni più evidenti di questa crisi è il contrasto in atto tra “vetero-laicisti” e sostenitori della “nuova laicità aperta”. Né gli uni né gli altri sono a favore della vera religione,
La “laicità aperta”, tuttavia, crea l’apparenza della libertà, una libertà dissolvente, sul tipo della concorrenza di mercato. I Vescovi, pur essendo scarsamente critici verso lo Stato, ormai non nascondono la paura di fronte ai danni provocati dalle due branche delle tenaglie laiciste, e per la prima volta da tanti anni, alcuni di essi hanno protestato.
In questa situazione anche le strutture postconciliari della Chiesa sono sconvolte, tanto più che queste strutture neo-ecclesiali sono nate dalla voglia di allinearsi ai dettami del “mondo contemporaneo”. Il progressismo di prima non ha più senso, il clima è di delusione e c’è una grande povertà intellettuale. Restano il risentimento, le piccole persecuzioni quotidiane, ad esempio per impedire che sia applicato il Motu proprio del Papa che dà il via libera alla riscoperta della liturgia tradizionale. Ciò accade in molte diocesi. Il caso di Thiberville costituisce un microcosmo di tali scontri. Dei profondi cambiamenti in atto non tutti i fedeli cattolici hanno una visione consapevole, ma trovano in questi avvenimenti motivi di incoraggiamento, sia per opporsi, che per manifestarsi in modo più netto ed aperto. Per esempio il collasso del sistema scolastico pubblico, ed in parte del sistema cattolico associato allo Stato, ha favorito la nascita di scuole private indipendenti e perfino la creazione di un Istituto superiore libero per la formazione dei maestri. Tutte cose quasi impensabili 15 anni fa.
Tutto questo può quindi spiegare un certo risveglio cattolico, con manifestazioni più dinamiche del passato.
D. All’interno del clero francese, anche tra i Vescovi, sembra emergere qualche figura interessante, mentre i progressisti sembrano in declino. Condivide questa impressione?
R. Per essere più preciso, direi che il sistema della collegialità ha funzionato fino questi ultimi anni come una prigione. Tuttavia davanti alla crisi (interna ed esterna), qualche incrinatura si è aperta. C’è poi un fenomeno generazionale, i progressisti più impegnati lasciano, e, come si sa, lo Stato interviene nelle nomine dei Vescovi. Poiché la tendenza del governo è a favore della “laicità aperta”, va nel senso di accettare vescovi più “cattolici”, se si può dire, che progressisti. E poiché da Roma le cose si vedono un po’ allo stesso modo… Inoltre la crisi interna del clero provoca reazioni salutari, e certi Vescovi non possono più non vedere i frutti negativi dello “spirito del Concilio” e si mostrano più aperti ad una positiva revisione. Ci sono una decina di casi di questo tipo, e penso che questa tendenza continuerà ad allargarsi, nonostante la forte resistenza dei più duri tra gli ideologi del “sistema conciliare”. Questo vale anche per certi ordini religiosi, come i domenicani, ed i gesuiti.
D. Quanto ha influito sulla reazione in atto la battaglia delle idee combattuta negli ultimi anni da gruppi ed editori di orientamento tradizionalista?
R. È difficile dare una risposta netta. La partita non è solo tra istituzioni della “Chiesa in Francia” -come si dice adesso – e tradizionalisti. C’è il “fattore romano” da un lato, e il fattore politico dall’altro. E sopratutto ci sono fatti come la presenza massiccia dei musulmani, gli eccessi del nichilismo, il crollo delle istituzioni e – come dicono i sociologi – dei “legami sociali”. All’interno della Chiesa, poi, c’è il grave problema della scomparsa dei sacerdoti. Tutto questo favorisce la circolazione delle idee, benché tutto avvenga quasi sempre a “voce bassa”. Si tratta di un momento di transizione.
D. Che accoglienza incontra nella cultura francese e negli ambienti tradizionalisti la rivista Catholica che dirige?
R. La rivista è esigente e presuppone un livello culturale piuttosto elevato da parte del lettore. Catholica è considerata una rivista “intellettuale”, e come tale è apprezzata soltanto dalla parte più colta dell’ambiente tradizionalista. Ma devo dire che a leggere la rivista sono anche persone di altri ceti, poco o per niente impegnati nelle vicende specificamente religiose. E questo perché, nonostante il dogma laicista, non può non esservi un rapporto tra religione e politica.
 D. La sua rivista si è occupata di Gramsci, la cui strategia di conquista dei centri nevralgici della cultura continua a condizionare pesantemente la cultura ed i mass-media in Italia. Pensa che i tradizionalisti debbano porsi seriamente il problema di un’azione volta a conquistare le “casematte” della cultura – come le chiama il teorico comunista – che sono saldamente occupate dalla cultura di sinistra?
 R. Sì, Gramsci è sicuramente un uomo-chiave, come ha ben dimostrato Augusto Del Noce. Il “gramscismo”, però, non è neutro. È una strategia di conquista dell’egemonia culturale finalizzata alla rivoluzione politica, associata ad un obbiettivo rivoluzionario e ad una organizzazione politica che ne assicura la direzione. L’esito della strategia gramsciana è stato il “suicidio” della rivoluzione di tipo messianico, ed ha provocato l’emergenza della società nichilistica. Dunque sarebbe un modello mortale… Direi, che non dobbiamo pensare a simmetrie. Ma la Sua domanda mi sollecita a dire questo: i cattolici si sono fatte troppe illusioni durante la lunga stagione del collateralismo, che ha funzionato come una trappola. Non hanno percepito la necessità di pensare al di fuori degli schemi del sistema vigente, come se farlo fosse stato un peccato. Adesso la scomparsa della Dc dovrebbe liberare le energie intellettuali. E la prima condizione per liberare il pensiero è quella di non aver paura di sé stesso! Sotto questo profilo vale – in modo dal tutto diverso, certo – il precetto di Kant: sapere aude! Il passo immediatamente successivo é la presenza sociale di un pensiero cattolico liberato delle catene democristiane. Dobbiamo auspicare un grande sforzo per una presentazione rinnovata dei concetti della filosofia politica classica, per spiegare ed analizzare la storia contemporanea, e per cercare soluzioni per il domani che vadano oltre il breve termine. Dovremmo organizzare convegni, promuovere pubblicazioni, incoraggiare ricerche, essere presenti nei dibattiti pubblici, abbattere i muri…”. (LN26/2010)