Rileggere la tradizione religiosa del Sud in musica senza le deformazioni ideologiche degli anni ‘70 e ‘80 ispirate dalla visione gramsciana del folklore, riproporre la cultura napoletana sintetizzata nella grande canzone classica. È il progetto al quale si dedica con successo Napolincanto, trio guidato da Gianni Aversano (voce, chitarra, recitazione), e composto da Nando Piscopo (mandolino) e Domenico De Luca (chitarra solista, percussioni). Il gruppo ha all’attivo quattro album, uno dei quali, Napolincanto live, esaurito, e lo spettacolo “Mozart e Pulcinella” ispirato all’Opera Buffa del ‘700, ed ha ottenuto importanti riconoscimenti. Nel 2004 ha tenuto un concerto privato per l’allora ancora Cardinale Joseph Ratzinger, ed il suo cd Napule, Popolo e Dio (2006) è stato trasmesso dalla Radio Vaticana.
 
Lettera Napoletana ha rivolto alcune domande a Gianni Aversano, per un decennio professore di storia e filosofia, e adesso maestro d’infanzia, studioso di storia e tradizione del Sud.
 
D – “Napolincanto” lavora sulla musica legata alla tradizione religiosa ed alla devozione popolare. Ritiene che ci sia ancora molto da portare alla luce in questo campo?
Occorre premettere che l’attenzione di Napolincanto alla tradizione religiosa è solo uno degli aspetti del nostro lavoro che è per la maggior parte orientato sulle sfumature della grandezza dell’animo umano espresse nella canzone classica napoletana. Questa nostra sensibilità nasce da un’appartenenza convinta al cristianesimo e quindi, ad un certo punto, esulando dalla nostra impostazione di trio classico, non potevamo non dedicare parte del nostro lavoro alla tradizione religiosa. Non siamo dei ricercatori ma ci siamo serviti di incisioni già esistenti ed in gran parte affrontate dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare. De Simone ha raccolto tantissimo e tanto ancora ci sarebbe da raccogliere. Ma la questione è che l’arte si esprime innanzitutto attraverso una forma bella. Le interminabili cantilene o litanie che si trovano in ogni piccolo paese della provincia, possono avere un interesse storico ma non certo artistico. Innanzitutto la bellezza rende credibile il messaggio, questo è un aspetto che noi non trascuriamo. Così è nato il disco Napule, popolo e Dio. Nell’affrontare questo lavoro non potevamo non appoggiarci, in gran parte, sull’operazione già compiuta da Roberto De Simone, che, oltre a proporre composizioni sue ha trasmesso una versione “colta” della tradizione con una riproposizione “elegante” di questo patrimonio, smussandolo delle asprezze di “canti” pieni di “terra” e di odori contadini Così, la nostra operazione, 40 anni dopo, ha avuto lo scopo di raccogliere in una sola pubblicazione “il meglio” della tradizione religiosa campana “tradendo” ciò che era già stato “tradito”, e per questo è giunto fino a noi.
Se vogliamo ascoltare musica tradizionale di quel dato momento storico e di quel dato ambiente rurale, dobbiamo andare alle registrazioni originali; noi siamo musicisti urbani per nascita e sarebbe inutile nonché mistificante giocare a fare i pastori o i contadini, magari suonando anche in costume.
Non è un caso che il termine “tradizione” derivi dal verbo latino tradere, “tradire, consegnare al nemico”. Chiaramente il sostantivo traditio nel significato più generale di “consegna, trasmissione” corrisponde ad un altro ambito semantico. Ma è pur vero, che quando si prova a trasmettere una tradizione, per la gratitudine di averla ricevuta e dopo averla amata ed interiorizzata, questa porterà un nuovo connotato: l’impronta di chi l’ha abbracciata e fatta propria. Quindi, passando di mano in mano, di cuore in cuore, quell’oggetto originario è continuamente tradito, ovvero, trasformato e nuovamente consegnato. Nulla esclude che tra qualche anno riproveremo a “trasformare” altro materiale.
 
D – In che misura la visione ideologica e l’orientamento gramsciano di gran parte della ricerca accademica sulle tradizioni popolari del Sud ha condizionato una vera conoscenza di questa cultura?
Il mio amico Ambrogio Sparagna, grande etnomusicologo e musicista, mi ha raccontato che è stato sempre osteggiato dai suoi “compagni” perché continuava a proporre canti religiosi. Lui rispondeva che la tradizione è per la stragrande maggioranza religiosa. È chiaro che l’orientamento della ricerca è stato sempre quello di leggere questi fenomeni come retaggi del paganesimo oppure come rituali magico esoterici, ed anche per questo la Chiesa ha tenuto spesso a distanza questi fenomeni. In realtà questi canti, balli, processioni o lamenti, altro non sono che la manifestazione della gioia o del dolore di uomini di fede semplice. Non dimentichiamo che Sant’Alfonso è stato il grande padre delle canzoncine religiose popolari cantate dai lazzaroni nel ‘700. Proprio con Sparagna stiamo “riportando nella Chiesa” tutto questo repertorio che è di una ricchezza e profondità immensa.
 
D – Che giudizio dà della produzione di gruppi come la “Nuova Compagnia di Canto popolare” ?
De Simone, come dicevo, ha svolto una grande opera. Certamente orientata secondo un visione ideologica, ma meglio lui che tanti teologi ortodossi senza sangue. Per fortuna che qualcuno ha portate alla luce queste cose! Sta a noi scrostarle dalle aggiunte del tempo e degli uomini. Noi sentiamo di affermare con certezza che abbiamo affrontato i canti della tradizione religiosa come se fossero canzoni nostre, rispettando l’essenza di quella tradizione, perché ad essa sentiamo di appartenere non per un vezzo intellettualistico o ideologico, ma per quella fede e quel gusto per la bellezza, splendore del vero, che ci è stato tramandato da padri-maestri, grazie ai quali esistiamo e cantiamo.
 
D – Una delle vostre componenti culturali è il meridionalismo. Sono cominciate addirittura in anticipo le celebrazioni per i 150 anni dell’unificazione dell’Italia. Da uomo di cultura e da meridionale che bilancio si sente di fare di questi 150 anni?
Inutile ripetere cose che voi m’insegnate e che i vostri lettori conoscono. Infatti le vostre pubblicazioni circa la questione dicono quelle che sono le mie posizioni. A dir meglio, ho tanto imparato da voi. Quando insegnavo storia mi siete stati molto utili… Mi preme dire che non occorre rimpiangere un passato restando solo ad un livello di denuncia, ma individuare in quel passato il motore, le ragioni, gli ideali per i quali quella società poteva essere così grande. Mi amareggio quando tanti “neoborbonici” risultano di una insensibilità o ignoranza verso quello che era lo spirito di quei tempi. Poi non ci lamentiamo del fatto che gli altri hanno in mano la cultura o ideologizzano il passato che riteniamo nostro!
 
D – Che cosa sta preparando Napolincanto?
È in fase di elaborazione, sulla falsa riga del bel lavoro già fatto con Mozart e Pulcinella per mostrare lo splendore musicale del ‘700 napoletano, un’opera teatral-musicale sulla vita di Sant’Alfonso raccontata da un lazzarone durante la “Repubblica partenopea”: musica, teatro e storia che narrano in un modo leggero dell’opera del più napoletano dei santi col “popolo vascio” della Napoli illuminista. (LN30/10)
 
Guarda l’esibizione di Napolincanto a TG2 Mizar
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DUE SICILIE: ‘APPUNTI’, A FENESTRELLE IL PRIMO LAGER DELLA STORIA
 
La deportazione e la detenzione dei soldati borbonici nella fortezza di Fenestrelle (Torino) è ricordata in un articolo della rivista on-line Appunti, diretta da Mario Villani. L’articolo, Un Gulag tra le Alpi, firmato da Mario Prete, rievoca «la sorte terribile [che] toccò (…) a quelle decine di migliaia di soldati, sottufficiali ed ufficiali dell’esercito duosiciliano che vollero rimanere coraggiosamente fedeli al loro Re, rifiutando il giuramento di obbedienza alle nuove autorità italiane (….).» «Circa settemila prigionieri – scrive Appunti – (…) ebbero in sorte di essere inviati in una tetra fortezza nel cuore delle Alpi piemontesi: il forte di Fenestrelle nell’alta Val Chisone a quasi duemila metri di altezza». «La vita in quello che oggi chiameremmo super-carcere di Fenestrelle era contraria alle più elementari norme di umanità e rivelava tutto l’odio con cui i rivoluzionari trattano in ogni epoca coloro che si oppongono ai loro progetti. Le finestre erano senza vetri, i prigionieri vestivano di cenci e dormivano su pagliericci o, più spesso, sui pavimenti di fredda pietra delle celle. Il cibo era costituito da una brodaglia immangiabile. I fisici di persone abituate ai miti climi del Sud Italia non ressero a lungo al freddo clima alpino ed i prigionieri cominciarono ad ammalarsi, ma di assistenza medica ovviamente non era neanche da parlare (… ) I detenuti cominciarono quindi a morire come le mosche e i loro corpi venivano gettati dentro ad una fossa piena di calce viva nel retro della Chiesa che sorgeva all’ingresso del forte (…) E d’altra parte la morte era l’unico modo di sfuggire alla prigionia perché a Fenestrelle di regolari processi e scarcerazioni non si vide mai l’ombra. Molti prigionieri addirittura non erano registrati, per cui le famiglie neppure poterono sapere dove era detenuto il loro congiunto. Il 22 agosto del 1861 vi fu un tentativo di rivolta dei prigionieri, scoperto e sventato dai piemontesi. Per rappresaglia le condizioni di detenzione furono ulteriormente inasprite ed ai disgraziati militari duosiciliani fu imposto di portare incatenata ai piedi una palla di metallo del peso di 16 chili (…) La detenzione si protrasse ben oltre il periodo bellico e, di fatto, praticamente nessun prigioniero ebbe la fortuna di far ritorno alla propria casa».
«Tra i tanti ‘meriti’ dei Savoia – conclude l’articolo – si può quindi annoverare anche quello di aver inaugurato il primo campo di sterminio della storia». (LN30/10).
 
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COMUNISMO: NUOVI DOCUMENTI, ‘IL VICARIO’ FU DISINFORMAZIONE
 
La leggenda nera contro Papa Pio XII, accusato di acquiescenza verso il nazionalsocialismo, fu creata dai servizi segreti dell’Urss e di altri Paesi comunisti e la realizzazione del celebre dramma Il Vicario, del regista tedesco Rolf Hochhuth, nel 1963, fu un’operazione di disinformazione del Kgb. A questa conclusione portano i documenti pubblicati dallo storico americano Ronald Rychlach nella nuova edizione del suo saggio “Hitler, the war and the Pope” (Our Sunday Visitor, Huntington 2010). Rychlach dedica un capitolo del libro all’argomento ed utilizza la testimonianza dell’ex generale romeno Ion Mikhail Pacepa, alto ufficiale dei servizi segreti della Romania rifugiatosi negli Usa nel 1978. (cfr. Il Giornale, 2.6.2010)
Pacepa nel 1960 dirigeva i servizi romeni nella Germania Occidentale e fu incaricato dai sovietici di infiltrare degli agenti in Vaticano per cercare documenti su Papa Pio XII e consegnarli al Kgb. Il nome in codice della missione era Posizione 12, raccontò Pacepa nel 2007. «Il generale Ivan Agayants, capo dell’ufficio disinformazione del Kgb volò a Bucarest per ringraziarci dell’aiuto. Ci disse che ‘Posizione 12’ si era trasformata in un potente attacco a Pio XII, intitolato Il Vicario» ( ibid.)
Rychlach ha accertato che il produttore tedesco de Il Vicario, Erwin Piscator, un comunista che si era rifugiato in Urss dopo l’avvento di Hitler, il produttore e l’editore americani ed il traduttore francese del dramma erano tutti appartenenti al partito comunista. Così come infiltrate e finanziate dai sovietici erano le riviste occidentali che recensirono favorevolmente Il Vicario. A questa tecnica di manipolazione della stampa ha dedicato pagine fondamentali Vladimir Volkoff nel suo romanzo (in realtà un saggio mascherato) “Il montaggio” (Guida, Napoli 1992). Il Vicario – afferma lo storico americano – «è stato promosso con una propaganda di stile sovietico» (cfr. Il Giornale, 2.6.2010). Il dramma che scredita la figura di Papa Pio XII contiene altri falsi storici ispirati dalla disinformazione comunista. Il massacro di Katyn, nel quale furono uccisi 22mila ufficiali polacchi, viene attribuito ai tedeschi, mentre ne furono responsabili i sovietici.
Altri documenti sulla fabbricazione di Il Vicario citati da Rychlach arrivano dai servizi segreti inglesi, secondo i quali le opere teatrali di Hochhuth aiutavano la propaganda dell’Urss. Ad accorgersi della manipolazione dei sovietici – scrive Andrea Tornielli su Il Giornale – fu anche il Cardinale Giovanni Battista Montini, poco prima di esser eletto Papa con il nome di Paolo VI. «Aveva notato la similitudine tra Il Vicario ed una pubblicazione comunista sul Vaticano e la seconda guerra mondiale uscita in russo e poi tradotta in tedesco ed inglese nel 1955».
Il Vicario fu rappresentato a Berlino nel 1963 e l’anno seguente a Londra, con un notevole impatto sull’opinione pubblica. In Italia il dramma fu pubblicato da Feltrinelli e rappresentato da Gian Maria Volonté. Il divieto di rappresentazione notificato dal prefetto di Roma in base alla normativa del Concordato provocò la mobilitazione degli intellettuali di sinistra, che organizzarono uno sciopero della fame al quale parteciparono Volonté ed il futuro leader di Potere Operaio Franco Piperno. Nel 2002, il regista greco Costantin Costa-Gavras trasse da Il Vicario il soggetto e la sceneggiatura del film Amen. (LN30/10).
 
 
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