Storia: un concorso mistificatorio sull’unificazione. Come sarà ricordato dalle Istituzioni il 150° anniversario dell’unificazione dell’Italia? Nonostante l’indicazione non politically correct del premier Silvio Berlusconi, che il 9 settembre alla festa dei giovani del Pdl ha consigliato a tutti la lettura del saggio di Angela Pellicciari “Risorgimento da riscrivere”(Ares, 1998) non c’è da farsi illusioni. Un Concorso nazionale indetto nelle scuole dal “Comitato Italia 150”, che gestirà le celebrazioni, e dal Comune di Torino su proposta della Fondazione Napoli Novantanove costituisce un primo esempio significativo. Gli studenti delle scuole primarie e secondarie vengono invitati a realizzare un video-spot “sul significato dell’identità nazionale”. “Tra gli sponsor più convinti dell’iniziativa – informa il Corriere del Mezzogiorno (2.10.09) – il presidente Giorgio Napolitano, che il primo aprile di quest’anno ha ricevuto in udienza speciale la Fondazione.”
Agli studenti, dichiara Mirella Barracco, presidente della Fondazione Napoli Novantanove, viene chiesto “quello che pensano loro, non quello che è scritto nei testi”. Davvero? Ecco alcuni brani dalla circolare inviata alle scuole tramite gli Uffici scolastici regionali che contiene il regolamento del Concorso. “Quando l’Italia iniziò il suo percorso di unificazione nazionale…”, esordisce il testo. Quale percorso, e chi lo iniziò? L’ “Italia”, che era divisa in Stati e nazioni differenti mai unite prime, oppure una esigua minoranza di cospiratori, che concepirono il disegno unificatore nel chiuso dei salotti e delle logge massoniche, come dimostrano i libri di Angela Pellicciari e quelli della nuova storiografia sul cosiddetto Risorgimento? “Nell’Ottocento lo stato italiano, come d’altro canto gli stati europei, scelse di costruire un’immagine nazionale unificante, che mirava ad attutire e ad eliminare le differenze (….) Non sempre – concedono gli organizzatori del concorso – tutte le manifestazioni locali di cultura trovarono spazio ed espressione nel mito nazionale che si andava costruendo. Ciò nonostante in questi 150 anni queste culture si sono espresse ed hanno dialogato, dando all’identità italiana una profondità e una complessità che ne costituisce la ricchezza, la caratteristica precipua”.
A parte l’ammissione davvero significativa sul “mito nazionale che si andava costruendo”, fa sorridere la “profondità e complessità” dell’ “identità nazionale italiana”. L’esistenza di una identità nazionale è proprio quanto viene contestato concordemente da studiosi ed opinionisti di diversa estrazione con l’occasione dei 150 anni dall’unificazione forzata e violenta delle penisola.(v. Lettera Napoletana19/09). La Barracco e gli altri imbonitori risorgimentali del “Comitato Italia 150” la danno invece per scontata mentre chiedono ai ragazzi di approfondirla con un video. Illumina il tipo di operazione che con il concorso si intende compiere un’altra ammissione degli organizzatori: “anche le nostre generazioni debbono utilizzare la memoria la consapevolezza della storia costruttrice di identità, individuale e collettiva”.Ma una storia manipolata genera un’identità artificiosa e precaria, proprio come quella dell’Italia uscita dal Risorgimento.
Artificioso e fumoso è anche il linguaggio degli organizzatori del Concorso in una circolare di ben tre pagine. Eccone un brano: (…) “il viaggio alla ricerca del senso che la parola cittadinanza oggi ricopre si caratterizza, quindi, come interstizio sociale che porta il soggetto al confronto con l’altro, con l’alterità….”.
Merita infine di essere citato un passaggio dedicato all’emigrazione: “Di fronte alla complessità determinata dal confronto tra le genti di città e di campagna, tra nord e sud, dalle migrazioni interne ricorrenti…”. Evidentemente il confronto tra città e campagna è lo schema nel quale i celebratori dell’unificazione pensano di poter fare rientrare la guerra combattuta per un decennio al Sud da 120 mila soldati piemontesi contro gli insorti borbonici, legittimisti ed antiunitari, definiti briganti. Quanto alle emigrazioni non sono state solo “interne”. Dopo il 1861 ve ne fu più di una, massiccia, verso le Americhe. Vittime, i meridionali ridotti alla fame dall’Italia appena nata. Nel secolo successivo, in più ondate, gli stessi meridionali dovettero trasferirsi nel Nord del Paese, arricchitosi a danno del Sud. Emigrazioni sempre nella stessa direzione. (LN21/09)
Sud: così finanziamo le imprese del nord
Chi vive al Sud paga tassi d’interesse molto più cari di chi vive nelle regioni settentrionali e finanzia con il proprio risparmio le imprese del Nord. I due dati non sono nuovi, ma un rapporto della Banca d’Italia sui costi del credito ed una ricerca dello Svimez sugli effetti delle fusioni bancarie mettono a fuoco come famiglie ed imprese meridionali siano penalizzate dal sistema del credito.
A giugno 2009 i tassi effettivi (Taeg) sui mutui applicati nel Mezzogiorno erano del 4,27, al Centro-Nord del 3,64% . A pagare più di tutti i prestiti delle banche sono i campani, con tassi del 4,39%, ma di poco si discostano i tassi praticati in Basilicata (4,36%), Molise e Sicilia (4,32%), Puglia e Abruzzo (4, 24%), Calabria (4,14%). Invece un abitante del Piemonte paga su un mutuo bancario un tasso del 3,22%, in Val d’Aosta si paga il 3,23%, nel Friuli il 3,53%. (cfr. Banca d’Italia, Rapporto sull’andamento del credito nelle regioni italiane nel secondo trimestre 2009).
Questa disparità di trattamento nel costo del denaro, che penalizza ugualmente famiglie ed imprese meridionali è diretta conseguenza delle fusioni bancarie cominciate alla fine degli anni ’90, che hanno visto grandi istituti di credito del Nord acquisire le banche meridionali.
Con i propri risparmi – dimostra una ricerca dell’economista Adriano Giannola, pubblicata sulla Rivista economica del Mezzogiorno (n. 1-2, marzo-giugno 2009), trimestrale dello Svimez – i meridionali finanziano essenzialmente l’industria del Nord. “Dal 1995 al 2006, il massimo periodo di fusioni, il valore del rapporto tra impieghi [prestiti alla clientela, ndr] e depositi al Sud, rispetto a quello del Nord, è passato dallo 0.85% del 1995 allo 0.74% del 2006”. I motivi? “rispetto al Centro-Nord le imprese del Sud sono poche, più piccole, (…) e come tali vanno incontro a maggiori rischi di non ottenere finanziamenti rispetto alle equivalenti del Nord. Il processo di fusione esaspera questo rischio”, prosegue lo studio. La crisi economica, con la scarsità di denaro disponibile ha esasperato la tendenza: “La ‘cassa comune’ creata con l’acquisizione della banca del Sud da parte di quella settentrionale, va sì a finanziare le imprese di entrambe le regioni, ma essendo il numero di imprese del Nord un multiplo di quelle del Sud per ogni corrispondente classe di rischio è meccanicamente garantito che le imprese del Sud abbiano meno accesso al credito rispetto alla situazione di indipendenza delle due banche”. “Con il processo di consolidamento [qui fusione tra Istituti di credito, ndr] – conclude lo studio dello Svimez – anche prescindendo da differenziali di rischio i risparmi raccolti al Sud vanno quindi in misura più rilevante che in passato a finanziare gli impieghi nelle imprese del Nord.”(LN21/09)
Cultura: in Friuli il dialetto è lingua ufficiale
Il dialetto friulano (Furlân) è lingua ufficiale nella Regione Friuli, dove dal 1996 – cioè circa dieci anni prima che la Lega ed altre forze locali sollevassero il problema della tutela di dialetti e lingue locali – esiste un’Agenzia regionale per la lingua (Arlef), che dispone di un budget di un milione di euro all’anno. In Friuli i cartelli stradali sono bilingui, in consiglio regionale durante le sedute lavora un interprete, ed a scuola viene praticato l’insegnamento delle altre materie in friulano, salvo esplicita richiesta. A promuovere quest’ultima iniziativa non è stata peraltro la Lega, ma l’ex presidente della Regione ed ex sindaco di Trieste Riccardo Illy, di centrosinistra, perché in Friuli il consenso sulla difesa del dialetto è molto ampio.
Dalla fine del 2008 sono state ampliate le trasmissioni radiofoniche della Rai in lingua friulana sulle frequenze regionali di Radiouno (v. Lettera Napoletana 14/09)
Nel 2009 per la tutela e la diffusione del Furlân la Regione ha stanziato 4, 4 milioni di euro.
Si lavora ad un dizionario bilingue, per ora disponibile on-line, e ci sono già una traduzione della Bibbia, una Wikipedia sul Web e perfino dei fumetti in friulano. La Lega, intanto, chiede una nuova legge per valorizzare una decina di dialetti locali: il triestino, il gradese, il dalmata, il muggesano, il bisiacco, parlato nella provincia di Gorizia. (LN21/09)
Comunismo: ancora in cattedra i maestri del terrore
La sconfitta della frazione armata del comunismo, che negli anni ’70 ed ’80 praticava in Italia il terrorismo, ha portato ad una reale revisione delle posizioni da parte dei suoi esponenti? In molti casi bisogna rispondere di no. I “cattivi maestri” sono ancora in cattedra. Lo scrittore Erri de Luca, ex aderente a “Lotta Continua”, nella quale, a Roma, era capo del “servizio d’ordine”, una struttura paramilitare ed armata, come egli stesso ha ammesso, (cfr. intervista a Claudio Sabelli Fioretti in Corsera Magazine, 9.9.2004) ha riproposto di recente la tesi di una violenza “buona” in quanto legittimata dall’ideologia, che andrebbe distinta dalla violenza priva di tale giustificazione. L’occasione è stata l’occupazione di un ex convento nel rione Materdei, a Napoli, da parte di un gruppo di aderenti all’associazione “Casa Pound”, classificata come di destra. In una intervista a “la Repubblica- Napoli” (30.9.2009) De Luca ha incitato gli abitanti del quartiere ad espellere con la forza i giovani. “Il quartiere dovrebbe reagire alla presenza di un gruppo neofascista, ribellarsi ed espellere questo corpo estraneo”, ha affermato.
Da anni Erri De Luca sostiene il cosiddetto “Centro sociale Officina 99”, realizzato nello stabile di un privato occupato abusivamente nella zona di Gianturco e successivamente acquistato dal Comune di Napoli ed affidato in comodato gratuito agli occupanti. Ma nessun paragone è possibile per l’ex dirigente di “Lotta Continua”. “L’occupazione abusiva è un’arma del partito comunista, della sinistra rivoluzionaria e dei movimenti operai. Non capisco che cosa ci faccia in mano ad un gruppo di neofascisti. È solo uno scadente tentativo di imitazione”. All’intervistatrice che gli ricorda che “Officina 99”cominciò con un’occupazione abusiva De Luca replica: “sono favorevole all’illegalità esercitata dal basso per ottenere dei diritti. (…) il problema non è la legalità del gesto, ma l’ideologia che lo genera”. Se per la morale cattolica un atto non si qualifica solo per il fine, ma anche per il suo contenuto intrinseco, per il marxismo-leninismo, che considera il terrorismo un’arma utilizzabile subordinandone l’uso all’unico criterio dell’efficacia, la moralità di un atto si definisce in funzione della sua utilità alla Rivoluzione. Fu sulla base di tali premesse ideologiche che il terrorismo comunista assassinò e ferì in Italia centinaia di persone nei due decenni degli anni ‘70 ed ‘80. Una delle vittime fu il commissario di polizia Luigi Calabresi, ucciso in un agguato a Milano il 14 maggio 1972 da due appartenenti a Lotta Continua, che lo aveva dichiarato un “nemico del proletariato”. Lo stesso Erri De Luca qualche anno fa alla domanda. “Tu avresti potuto uccidere Calabresi?” rispose: “Ma certamente. Quando dico noi, includo anche me” (Intervista a Claudio Sabelli Fioretti, in Corsera Magazine, 9.9.2004). (LN21/09).
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