Per chi, come me, frequenta da una vita lo stadio San Paolo la partita della vigilia di Pasqua ho fornito un’emozione particolare, mai avvertita nei tempi passati. Essa non riguarda l’attività sportiva (alquanto deludente) ma il comportamento del pubblico napoletano.
In tutti gli stadi d’ Italia vi sono stati segnali di cordoglio e solidarietà per gli abruzzesi vittime del terremoto. Niente a confronto di quello che è accaduto a Napoli.
A parte il lunghissimo drappo nero che la famosa (o famigerata?) curva B ha tenuto steso per l’intero incontro di calcio in segno di lutto strettissimo (come testimonia la foto) o la devoluzione dell’incasso ai sinistrati (come mostra l’altra foto su un giornale distribuito all’ingresso),             quello che ha colpito è stato il minuto di silenzio previsto prima delle gare. Tale disposizione federale abbastanza spesso è utilizzata per esprimere ufficiale cordoglio  a fatti o personaggi legati al mondo dello sport o di grande risonanza, come appunto il sisma de L’Aquila.
Non so bene (e non m’importa) come ciò avviene normalmente dalle altre parti, ma è da rilevare come ciò è sempre stato realizzato a Napoli.  Il fischio dell’arbitro per indicare la decorrenza del minuto è praticamente subito dopo interrotto sia da applausi freneticamente anticipati sia da rumori di vario genere poco o affatto connessi all’avvenimento ricordato. Mai un vero minuto di raccoglimento con sessanta secondi di silenzio effettivo rotti alla fine dal rituale applauso di solidarietà. Il più delle volte gli spettatori del San Paolo, moltissimi  comodamente seduti,   nemmeno sapevano bene il motivo della commemorazione, influendo ciò nettamente sull’ovazione accelerata o il brusio indistinto di chi chiedeva cos’era successo di importante. Eppure negli ultimi trent’anni non sono mancati purtroppo accadimenti funesti  singoli o collettivi di una certa rilevanza, però nulla di talmente coinvolgente per cambiare il (cattivo) comportamento dei Napoletani. L’unico caso assimilabile al presente è il terremoto dell’Irpinia del 1980 quando, ovviamente, lo stadio di Napoli rimase chiuso.
Ebbene, le centinaia di morti dell’Abruzzo Ultra I (come si chiamava la provincia de L’Aquila nel Regno delle Due Sicilie) sono stati commemorati dai quasi cinquantamila del San Paolo in un silenzio totale e completo che, per la prima volta, ha bloccato consapevolmente decine di migliaia di voci facendo quasi agghiacciare il sangue nelle vene per la novità assoluta. Tutti in piedi a meditare e poi una scarica di battimani secca e continua anche questa inusitata.
Non è l’improvviso recupero del famoso senso civico (in bocca perennemente a quelli che vogliono farci diventare milanesi o olandesi)ma l’evento a muovere l’atteggiamento dei tifosi azzurri. L’evento non deve solo eccezionale ma riguardare il cosiddetto prossimo per far comandare il cuore e ottenere la spettacolosa solidarietà goduta al San Paolo. Sabato abbiamo avuto negli occhi le immagini strazianti dei nostri connazionali duosiciliani abruzzesi , ecco perché abbiamo fatto un istantaneo salto indietro nel tempo e reagito come fa l’amorevole capitale nei confronti di una delle più nobili e fedeli città della nazione.
Da tempo andiamo dicendo che allo stadio San Paolo non si va solo a vedere ventidue giovanotti che si disputano un pallone. Contrariamente agli altri stadi italiani, i Napoletani sono attratti irresistibilmente (vedi la frequenza straordinaria anche in serie C!) da una forza inconscia che aduna giovani e vecchi, ignoranti e intellettuali, ricchi e poveri. Essi vivono per un paio d’ore un’esperienza magica indipendentemente dal risultato calcistico. Essi si fondono in un unico organismo che soffre e gioisce all’unisono. Essi hanno una bandiera, una fede, un obiettivo comune. Essi rappresentano, in quel limitato arco di tempo, una nazione. Quando capiranno che quello sfogo inconscio può diventare un cosciente domani di riscatto?
Il sanfedista