L’Archivio di Stato di Napoli conserva gli atti processuali della corte di assise di quella incredibile vicenda, che colpì fortemente l’opinione pubblica italiana e di cui ricorre in questi giorni il centotrentesimo anniversario.
La vicenda è nota: Giovanni Passanante, cuoco lucano ventinovenne di Salvia, cerca (invano) di colpire con un coltello il re Umberto che, per la prima volta, si era recato in visita ufficiale nella vecchia capitale del sud; ma non vi riesce, grazie al pronto intervento di due Carabinieri della scorta.
Ma è tutto ciò che circonda a latere la vicenda stessa a rivestire un interesse particolare: infatti dalla rilettura di quelle antiche carte appare involontariamente un mondo inesplorato e per certi versi inimmaginabile, un vero spaccato di ciò che i nostri antenati meridionali dovettero subire, all’indomani dell’unità d’Italia o poco dopo. Come detto Passanante non riuscì nemmeno a sfiorare il sovrano, e tuttavia si trovò quella sera stessa imputato di “regicidio” : una accusa gravissima che comportava la pena di morte, accusa che inutilmente l’avvocato Tarantini cercherà di far derubricare. Infatti il reo sarà giudicato -e poi condannato- non per avere “attentato alla sacra persona del Re”, bensì per “avere compiuto regicidio”, ossia per averlo ucciso (art. 513 del codice penale sabaudo). Eppure anche tale aberrazione, che farebbe rabbrividire qualsiasi giurista, è poco o nulla rispetto a ciò che accadde nei giorni successivi al fatto non tanto al povero passanante quanto ad altre persone, assolutamente estranee ai fatti. Già nella notte tra il 17 e il 18 novembre vengono arrestati a Napoli tutti coloro che hanno avuto la sventura di avere intrattenuto rapporti o legami con il Passanante. Ma non basta: vengono arrestati non solo alcuni anarchici salernitani, ma anche dei vecchi ufficiali napoletani del disciolto esercito borbonico, perchè la Polizia segreta (quella che oggi con una parola moderna chiameremmo “Servizi”) segue di nascosto la pista del “borbonismo” : sospetta cioè che vi sia un complotto di legittimisti ( nonostante il povero attentatore si sia da subito dichiarato anarchico…). Nella giornata del 18, poi, giunta la notizia in Lucania, i Carabinieri reali di Potenza -anche per non essere da meno- conducono in carcere la anziana madre del reo, le tre sorelle, i due fratelli, tutti i nipoti maggiorenni e anche qualche zio (paterno e materno) che vive ancora a Salvia. Il padre per sua fortuna è deceduto da qualche anno. Riescono a salvarsi stranamente alcuni parenti di Vietri Lucano (cosa che rivela una certa inefficienza del sistema…). Intanto a Salvia il Sindaco Parrella, terrorizzato, temendo forse una reazione manu militari da parte dell’esercito sabaudo (per oltre dieci anni, causa l’infamante etichetta di “brigantaggio” , sono stati messi a ferro e fuoco con spietate aggressioni contro gente inerme molti paesi lucani) forse ritenendo Passanante l’untimo “brigante”, decide di indire un urgente e straordinario consiglio comunale, dove Salvia cambia nome: il paese -in segno di profonda devozione e di amore verso la dinastia regnante- viene solennemente e per sempre ribattezzato come “Savoja di Basilicata” (nome vigente ancora oggi). Intanto, siccome Giovanni non confessa il nome dei suoi inesistenti complici, nel carcere della Vicaria -dove è stato trasferito da quello di San Francesco- viene legato su di una specie di poltrona con il piano bucato, che permette di inserire un lume a petrolio nei pressi delle sue parti intime. Ovviamente tale tortura viene adottata solo a giorni alterni, con un’altra che però non è meno cruenta, perchè vede il prigioniero legato supino ad un letto, con il dorso scoperto: cosa che permette di picchiarlo su spalle e schiena con dei bastoni di legno, su cui sono stati infissi anche degli spilloni. Durerà tre mesi. Nelle more vengono ufficiosamente indagati dalla Polizia Segreta anche il mite e pio Francesco II e la moglie Maria Sofia di Borbone, ossia i sovrani napoletani spodestati. Della loro posizione non si saprà più nulla.
Il sei marzo inzia a tamburo battente il processo: per l’evento sono stati addirittura venduti i biglietti per gli spettatori e sono stati accreditati più di centocinquanta giornalisti. Sarà il processo dei record! Quando Passanante entra a Castel Capuano tutti hanno modo di vedere che ha il volto sfregiato (peraltro è anche dimagrito di una ventina di chili, poichè al suo ingresso in San Francesco pesava 78 chili, quando raggiungerà l’isola d’Elba ne peserà 58).
L’imputato non può deporre, ma vengonoi lette in udienza le sue deposizioni (quelle sottoscritte dopo le torture).Sfilano poi una decina di testimoni, molti dei quali si arrogano l’onore di aver fermato la mano dell’ “omicida del Re”!
E’ il processo più breve della storia, e ciò nonostante non vi sia alcuna confessione (nè potrebbe esserci: come si fa a confessare un reato che non si è verificato?).
Solo alla fine del dibattimento Passanante può prendere la parola per una semplice dichiarazione ed egli ne approfitta per dire che non aveva l’intenzione di uccidere Umberto, ma semmai di ferirlo. L’udienza viene rinviata all’indomani: arringa del Procuratore per l’accusa, che chiede la pena di morte, arringa del difensore, e infine repliche.
All’una è tutto finito : si ritira dapprima la Giuria dell’assise, che -in tre minuti- decide le sorti del giovane : è colpevole.
Alla Corte non resta che condannarlo a morte (pena commutato nell’ergastolo, da scontarsi però in isolamento completo, fino alla morte). Per lui viene concepita, a monito perpetuo, la più orribile delle morti civili, un trattamento medievale e disumano : richiuso nella cella sotterranea della torre della Linguella, all’Elba (mangiando anche le proprie feci e senza mai vedere nessuno) in undici anni Passanante impazzirà.
Ma il terribile monito non sarà colto da Bresci, un altro anarchico, che ventidue anni più tardi ucciderà a Monza Umberto di Savoja a colpi di rivoltella.
Criminologi, psichiatri e uomini di Legge hanno ritenuto quello di Passanante come il gesto di un folle.Non è stato però considerato ciò che Passanante dichiarò durante le torture: egli disse di avere visto mutare in peggio le condizioni del suo popolo. Invero all’indomani dell’unità d’Italia una grave crisi economica colpì tutto il Sud. Ed anche lui, da figlio di un contadino possidente, che gli aveva permesso di frequentare le prime classi delle scuole pie del regno, dovette andare appena undicenne a lavorare “a padrone”, allontanandosi dalla propria famiglia, la qual cosa non spiega certo l’esecrato gesto, ma induce almeno comprendere l’ostilità che il povero Giovanni doveva aver maturato nei confronti della nuova casa regnante. Ed invece, in quanto pazzo, anche dopo morto Passanante non trovò pace: fu decapitato e il suo cranio divenne oggetto di studio. Fu anche quella, per il Mezzogiorno, l’Italia umbertina.
Antonio Boccia
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